Antonio Piromalli

Leggi il brano completo:

- l'opera di sperimentazione per "lo svecchiamento didattico" -

(tratto dall'articolo: La mia sociologia della letteratura, "Problemi" n. 106 - settembre 1996)

 

 

Per chi aveva desiderio profondo morale di partecipare al rinnovamento della società la protesta giovanile del Sessantotto non poteva non suscitare grandi speranze di assistere al mutamento della società cristallizzata e inerte e delle sovrastrutture che direttamente o indirettamente ne riflettevano la putrefazione: scuola sclerotizzata e narcotizzata, università governata da baroni che occupavano posti di comando e non producevano alcuna attività sociale. Ma la protesta giovanile non si collegò con il mondo del lavoro, assunse motivazioni elitarie, sofistizzò sull'interpretazione del negativo in positivo, sui richiami del nulla, sulla destoricizzazione dei problemi per studiarne gli archetipi e proiettarli nell'assoluto. La volontà di distruggere gli strumenti della comunicazione come portatori di confusione accrebbe il disordine.

Ma non era il movimento giovanile in quanto tale a creare confusione, erano pseudo intellettuali sconclusionati che scambiavano il "movimento" per creazione (ma non tutto fu negativo e talune formule di richiamo al contemporaneo, alla lotta, alla fantasia esercitarono una giusta seducente attrazione: rimasero, però, girovaganti per l'aria).

Ricordo di avere accolto con favore la ventata di rinnovamento, e nei primi anni Settanta venni sviluppando nella mia attività i temi della cultura alternativa ("altracultura", minoranze, dialetti) e proponendo uscite, rimedi, compensazioni, restauri, correzione di errori compiuti, per modificare la realtà socio-culturale. La letteratura si doveva sporcare con la storia. Venni sviluppando collane di testi dialettali, di testi grecanici, di critica sull'identità dialettale minacciata, edizioni di testi dialettali inediti di Vincenzo Ammirà, di Pasquale Creazzo, di Pasolini, di monografie intorno a minori significativi: cultura popolare e storicizzazione dei suoi temi fu l'indirizzo di queste ricerche miranti allo scoprimento di un filone sommerso mantenuto subalterno, censurato, soppresso. La sociologia della letteratura costituì la nervatura dell'indirizzo per il carattere storico-sociale dei testi e dei problemi collegati alla vita della nazione: sottomissione dei documenti non aderenti alla cultura ufficiale del Regno d'Italia; manutenzione subalterna (censura, narcosi, soppressione) di tali documenti mediante l'enfatizzazione dell'estetica della liricità i cui prodotti venivano valutati in modo mistificatorio; valore subalterno assegnato alla letteratura satirica, deformatrice, polemica; collegamento tra ideologia moderata o reazionaria con il gusto ufficiale.

Il movimento contestativo consentiva di accedere a una cultura intesa come "rivoluzionaria" che non giunse, però, a dare frutti determinanti. Fu una ondata lunga e investì per anni la mia attività facendomi volgere allo studio del rapporto tra letterature regionali e letteratura nazionale. Fin dagli studi sulla cultura a Ferrara al tempo dell'Ariosto avevo cercato di liberare il realismo dalla subalternità culturale imposta dall'ideologia idealistica cortigiana: era stato il caso di Antonio Cammelli detto il Pistoia, poeta satirico, realista, anticortigiano. La letteratura nazionale italiana è totale, culturalmente e civilmente, nei suoi momenti di realismo, naturalismo, verismo; ha cercato, invece, di inglobare, sottomettendole, le letterature regionali nei suoi momenti aristocratico-cortigiani, formalistici, idealistici. Tale vicenda aveva per me importanza sociologica e metodologica.

Negli anni Settanta (fino al 1976) mi fu dato l'incarico, in qualità di Ispettore Centrale del Ministero della P.I. (Direzione Generale Istruzione classica, scientifica e magistrale), di svolgere i corsi di aggiornamento per i professori di quella Direzione tenendo conto della contemporaneità e dell'interdisciplinarità. Fu un'occasione irripetibile per sperimentare nuovi contenuti e metodi ai fini della riforma della scuola media superiore unitaria (con opzioni), della verifica delle ipotesi di nuovi programmi, dello svecchiamento didattico. L'occasione consentiva una sperimentazione di massa e con l'aiuto di ottimi collaboratori (anzitutto Ersilia Oricchio che era a capo dell'AIM, Pietro Tripodi direttore del Laboratorio Scientifico Sperimentale di Foligno, Giambattista Salinari, Giovanna De Sabata, Pasquale Modestino, Girolamo Sotgiu, Nicola Badaloni, Giuseppe Petronio, Mario Sansone, Alberto Asor Rosa, Silvio Abbadessa, Aldo A. Mola, l'Ispettore generale Enrico Dalmasso, gli Ispettori centrali Giacinto Margiotta, Ettore Orlandini, Vera Lombardi, Lorenzo Caldo, numerosi docenti universitari, presidi, professori, sperimentatori) ho potuto ogni anno raggiungere migliaia di docenti che venivano a frequentare i corsi di aggiornamento. Tali corsi erano fondati su lezioni, dibattiti, gruppi di studio, elaborazione — per ciascun corso e relativamente a ciascun tema — di documenti sull'argomento e sulla riforma; i medesimi docenti di ciascun corso venivano richiamati per seminari di tre giorni durante i quali riferivano intorno a ciò che avevano potuto attuare nella scuola, alle difficoltà incontrate. I temi dei corsi riguardavano tutte le discipline o gruppi di discipline, i problemi erano sempre posti in rapporto con la società e storicizzati, non piovvero sui corsi gli sfilacci formalistici che preludevano a un nuovo infecondo idealismo. Furono trattati i rapporti tra le culture regionali e la cultura nazionale, tra la letteratura e il teatro (il grande organizzatore dei corsi riferibili al teatro fu Ruggero Jacobbi), i caratteri della letteratura emiliana nel Novecento, il Rinascimento a Ferrara, l'età del positivismo in modo interdisciplinare, l'età del romanticismo, la letteratura nel primo Novecento, i problemi dell'illuminismo (Giuseppe Petronio portò il problema dell'«attività letteraria», della storicizzazione di Arcadia e Illuminismo, della cultura di massa e di consumo nella società delle masse), il rapporto tra dialetti e lingua, dialetti e scuola (Pasolini una settimana prima della fine tenne una mirabile conversazione sul «Volgar'eloquio»), culture minoritarie (grecanica, albanese, occitanica in Calabria), a Livorno ebbero voce tutte le minoranze linguistiche, la scienza nel Rinascimento, nell'età barocca, la storiografia di Manzoni, il rapporto tra ideologia moderata e arte nell'opera manzoniana, ecc. Tutti gli aspetti della cultura sommersa, negata, le ideologie letterarie dei dialetti, il rapporto tra lingua nazionale e classi al potere vennero trattati con immenso favore da migliaia di docenti delle scuole medie superiori i quali combatterono una vera battaglia culturale per il superamento della riforma Gentile, per portare nelle scuole nuovi contenuti e nuovi metodi.

Nei primi anni Settanta i partiti politici presentarono progetti per la riforma della scuola, ma nessuno di essi giunse in porto, e avversari delle nostre proposte che nascevano dal contributo di migliaia di docenti furono i democratico-cristiani: taluno di essi, come il senatore Spigaroli, piacentino, presentò interpellanza per ostacolare lo svolgimento dei corsi di aggiornamento. Era anche prevedibile, perché dall'Unità d'Italia in poi ciò che ha svolto l'ufficio AIM (Aggiornamento Insegnanti e Metodi) in quegli anni non era mai stato tentato e mai ad alcun tentativo erano seguiti risultati di tale rilievo storico e culturale.

Di tutta quell'immensa attività non esiste al Ministero della Pubblica Istruzione una minima traccia: come se nulla fosse avvenuto. La sociologia della letteratura ebbe gran parte nei dibattiti e nella formulazione di programmi e di proposte didattiche. Essa serviva a correggere l'idealismo fumoso della riforma Gentile, era uno strumento prezioso; la critica è altra cosa, è sintesi di una attività di ricerca interdisciplinare e storica, è valutazione di tutti gli elementi. Anche il termine "società" venne contestato dalla destra cattolica e reazionaria come un pericolo di lesa maestà per l'arte e la poesia: una modestucola insegnante priva di filosofia e dogmatica, retriva, fu tra i tenaci oppositori. Purtroppo la "sventurata" sarebbe diventata ministro della Pubblica Istruzione: Falcucci.

Eppure non si trattava di gruppi aderenti a «servire il popolo» o a «lotta continua» e simili ma di equilibrati riformatori i quali cercavano di dare una sterzata all'insabbiato carrozzone scolastico-didattico italiano. Certamente non mancarono i superficiali tifosi della "lettera", i deliranti patiti della contemporaneità, destoricizzanti, i quali non capirono che estrarre dal passato gli elementi "contemporanei" è possibile dopo avere storicizzato il passato e avere visto ciò che può essere attuale; non capirono che il concetto di "contemporaneità" non vuoi dire attualizzazione, che esso non cassa la storia né la deforma. Non mancarono in quel movimento che interessò profondamente la scuola i libertari e gli anarcoidi, ma furono delle frange mentre, invece, tutta la scuola ricevette forti motivazioni riformatrici alle quali seguì, nel tempo, una demotivazione totale con i «decreti delegati» che segnarono la fine della sperimentazione attiva e costituirono l'ipocrisia del sociale istituzionalizzato per evitare le riforme.

Ma metodo sociologico nella letteratura, valore dell'intelletto nella creazione artistica hanno importanza episodica e non globale se manca la visione democratica del mondo e dell'arte, se la terminologia anche moderna rimane una formula e non diventa sostanza. Anche intellettuali appartenenti alla sinistra non riescono a intendere che viviamo in una società di massa (successiva all'epoca borghese e a quella dei numerosi ceti piccolo e infimo-borghesi), che massa non vuoi dire di per sé confusione e uniformità, che i ceti della società di massa si aggregano e si separano in modi vertiginosi, frantumandosi e distinguendosi sicché le spinte sono le più varie e le meno suscettibili di classificazione o definizione generica. Del resto la lotta perché ci fosse base di partenza culturale nella scuola e nelle università potessero studiare tutti, la battaglia contro i privilegi della scuola di classe, contro il falso umanesimo prevaricatore nei confronti della scienza e della tecnica, l'insorgenza contro l'interessato eurocentrismo, contro il razzismo, i confessionalismi, gli integralismi, avevano come obiettivo la partecipazione del maggior numero di persone ai beni della cultura. Le ultime parole di una famosa lettera di Gramsci a un figlio si chiudevano con l'esortazione emblematica ad andare verso il maggior numero di uomini abbattendo pregiudizi ed eliminando la falsa coscienza. Il significato, la direzione, la meta della battaglia politica e culturale di tanti uomini anche diversi per formazione e struttura erano questi. Naturalmente esistevano anche gli intellettuali della "simulazione onesta", con la mente a organetto, che si dilata e si restringe ma costoro sono contrassegnati dal vuoto e dalla caducità. Quando Elémire Zolla scrive che «nulla può sussistere nella dimensione di massa che abbia un significato interiore» non fa che rifiutare la concretezza storica dell'agire umano, non fa che porsi in una sfera di "interiorità" che non potrà mai definire in modo diverso dal disprezzo che egli ha per chi non sia sedicente letterato o sedicente spiritualista (spiriti profetici, poetici, metaforici, turibolanti, essenze, anime, incorporei, idealisti ecc.). Non c'è bisogno di arroccarsi in materiale eburneo per rifiutare i prodotti in serie di oggi (ma anche quelli di ieri: autostrade di petrarchismi, barocchismi, arcadismi, romanticismi ecc.): quel concetto aeriforme, la nube universal-totale di poesia, è scomparso con il platonismo e il misticismo delle classi e dei gruppi che lo avevano creato, covato, riprodotto; sono scomparsi i generi letterari prodotti da quelle società e altri sono subentrati, prodotti dall'acculturazione della civiltà del consumismo industriale; i modelli che sentimento e immaginazione creano oggi sono ben diversi. All'eroe epico del romanzo (cavalleresco, storico, verista ecc.) succedono altri eroi della cultura di massa; non è necessariamente l'eroe della crisi o dell'avanguardia a essere uno dei segni del tempo che lascia cadere i formalismi, i decadentismi, gli stilismi, gli accarezzamenti linguistici. Queste ricercatezze esistono ancora ma hanno il carattere delle croste, dei rimasugli, degli avanzi, perché non nascono dal turgore del rimescolamento ma dal raccogliticcio dei depositi.

 

 

Antonio Piromalli

Leggi l'articolo completo

La mia sociologia della letteratura, da "Problemi" n. 106 - sett. 1996

 

Ricordo l'ambivalenza del risentimento politico e sociale che durante la mia adolescenza e prima giovinezza si trasformava, con l'ermetismo, in impegno creativo lirico. L'approdo alla liricità della poesia era nella critica il culmine: poteva esservi poesia che non fosse un po' magismo, incanto, armonia, trasfigurazione, nota musicale, oltrerealismo, supermercato del dato sensuale, «circulata melodia» ecc.?

Non era possibile e allora la dimensione letteraria alta non consentiva vero impegno umano. Si aveva un bel dire che l'impegno vero era la parola, la letteratura, che la moralità era nell'impegno letterario. Si poteva costruire qualcosa quando veniva specificata la natura o specificato il fine dell'impegno letterario. Con fili sottili ricordo che riuscivamo a collegarci tra noi coloro che avevamo un sentire antifascista, ma essere culturalmente antifascisti era la cosa più naturale del mondo di allora, tanta era la rozzezza intellettuale, mentale, morale del fascismo italiano degli anni Trenta. Ma il fascismo era un immenso crostaceo dal quale non era facile uscire; il linguaggio idealistico-nazionalistico pervadeva ogni aspetto della vita. Si opponeva al fascismo, in quegli anni, Croce che fu per molti "crociani" — tutti di diversa natura — un faro di luce ma la magia della "poesia", l'incanto musicale, l'armonia della vita poetica ci pareva cosa da salotto letterario borghese che disprezzava ipocritamente la non-poesia: il linguaggio dell'idealismo crociano e della filosofia dello spirito diventavano nuvolaglie che planavano sulla vita di tutti i giorni, non si contaminavano con il gioire e il patire degli uomini, dei violenti che facevano guerra atroce ai più deboli e ai più civili. Ciò non impediva però che tra le schiere crociane ci fossero grandi personaggi con profonde radici nell'endiadi morale di giustizia e libertà, nel concetto di uguaglianza. Perciò, perché si avesse consapevolezza anche di una moderna sociologia della letteratura è stato necessario che la dottrina crociana della poesia come assoluto venisse fortemente contestata, vinta, compisse il suo lungo ciclo che era il travestimento di altri idealismi del passato; era necessario che nella polemica scendessero i valori della storia e del marxismo perché la sociologia avesse un ruolo quale investigatrice dei fatti, non fosse la predica morale che spesso era stata nel tardo Ottocento, studiasse con le sue specialità le civiltà, i fenomeni del reale da cui derivano spiegazioni, ipotesi, leggi, costanti, ecc. Gaetano Trombatore nel 1938 aveva pubblicato uno studio su Fogazzaro assai importante per il metodo nettamente crociano (poesia e non poesia) ma arricchito di individuazioni critiche personali; nel 1945 ritornando in Italia dall'Ungheria, Trombatore a Napoli aveva notato le prime avvisaglie del rapinoso vento anticrociano che già soffiava con vigore. Marxismo, esistenzialismo, cattolicesimo moderno rappresentavano la lotta contro il nazifascismo e la società nata dalle distruzioni della guerra, l'elemento sociale vigoreggiava nella cultura come riflesso di un mondo che si accorgeva delle lacerazioni e andava ricercando la verità di quella realtà, il significato del dolore nato dagli sconvolgimenti barbarici. Insomma gli universali rarefatti, incantati e magici, di Croce si rivelavano inattuali, non aderenti alle esigenze di una umanità da ricostituire. La guerra finiva nel maggio del 1945, nell'autunno dello stesso anno Croce si occupava dell'Arcadia società allevatrice, educatrice di ingegni, non solo — come l'aveva vista De Sanctis — dimora stanziale di pastori e pastorelli; vero anche questo, e Croce e Fubini rivalutavano l'Arcadia, le terze forze del tempo si organizzavano culturalmente — per paura del nuovo — sulle trincee della conciliazione di vecchio e nuovo, del valore della tradizione, sulla retrodatazione del vivente per non farlo apparire tanto vivente, bensì vecchio per vetustà e, pertanto, rispettabile, venerabile.

Durante la dittatura Croce da un certo momento in poi si era opposto al fascismo, era diventato il dittatore idealista — fortemente antisocialista e anticomunista — della cultura italiana. Il fuoco del dopoguerra bruciò le ornamentazioni crociane ma le «sentinelle dello Spirito» («noi siamo sentinelle dello Spirito poste al di qua e al di là del mondo» aveva scritto Croce) vigilavano contro la sociologia della letteratura di Antonio Gramsci, contro la metodologia sociologica dello studio della funzione degli intellettuali nella vita e nella cultura italiana. Per ragioni di generazione e di formazione culturale (non pochi per ragioni di formazione politica) rimasero crociani con tasso diverso di poesia-non poesia, poesia-struttura, tradizione-innovazione, metrica-creazione, cultura-poesia, società-poesia ecc., e diadi disagiatissime e comiche si aggiravano come intitolazioni dei "titoli" concorsuali: vi leggevi subito l'occhiolino al maestro, l'ammiccamento che «l'antico valer non è ancor morto». I maestri non riuscivano a entrare nel nuovo: Russo (che nel 1949 ruppe clamorosamente con Croce ma rimase idealista, spostandosi politicamente verso la sinistra), Flora, Momigliano, De Robertis, Valgimigli, Pancrazi, Marchesi, Getto, Binni, Garetti, Contini, Sansone ecc., rondisti, solariani, ermetici, linguisti, dantisti, filologi ecc., un esercito di valenti difensori della poesia, di avversari della sociologia, taluni (non tutti) del legame tra cultura e poesia, tra storia e poesia, tutti nemici del rapporto (non certamente immediato ma "loro" sempre pronti a parlare di «rozzezza», di «impurità», di «contaminazione») tra la società e la poesia. Nel 1940 Gaetano Trombatore mi aveva fatto conoscere a Venezia Arturo Pompeati, onesto lavoratore che mi promise, nel 1950, una premessa a una mia storia della critica fogazzariana. Avuto il manoscritto in cui era, ovviamente, anche la parte avuta nella critica dal marxismo, Pompeati mi restituì il manoscritto e declinò gelidamente l'invito poiché lui non sapeva che si sarebbe trattato anche della critica marxista. Il libretto sarebbe uscito nel 1951 (Firenze, La Nuova Italia) con titolo Antonio Fogazzaro e la critica e con una intelligente premessa di Giuseppe Petronio. Di quale marxismo si trattava nel libretto, pro rata parte? Di nessuno. Gaetano Trombatore aveva, dopo il saggio di stampo crociano (1938), pubblicato nell'immediato dopoguerra uno studio acutissimo sul successo di Fogazzaro e sulla sua mirabile fortuna presso il pubblico femminile, presso la società aristocratica settentrionale, presso le fedeli e le infedeli di amore, presso le anime belle e coloro per i quali il peccato si tinge di tenerezza e di sentimento elegiaco, presso gli esteti del sentimento. Fogazzaro da Raffaello Viola (1939) in poi era visto in relazione a una determinata società ottocentesca chiusa e narcisista, era uno scrittore di un luogo e di un tempo, di un particolare pubblico; saltavano in aria l'universalità e l'eternità; il magismo musicale che i crociani vi avevano rinvenuto era l'estenuazione letteraria del sentimentalismo Veneto tardo-romantico, era l'elegia della falsa spiritualità, l'orgoglio fatuo di volere essere spiritualmente al di sopra degli altri, di avere per sé e per il proprio amore un cantuccio riservato in un paradiso dell'aldilà quando le leggi della società civile non lo consentivano sulla terra. La sociologia letteraria di Trombatore aveva fatto cadere le impalcature mistificatrici, i belletti fasulli, la maschera idealistico-cattolica, aveva fatto vedere la miseria morale di una società angusta e greve. La critica letteraria aveva ricevuto sommo aiuto dall'indagine sociologica (qui Croce non c'entrava; erano stati i crociani fasulli a creare l'immagine mascherata di Fogazzaro «cavaliere dello Spirito»). Ancora maggiore, dilatato, profondo, fu l'aiuto che ricevette dalla pubblicazione delle opere di Antonio Gramsci, dalla storia degli intellettuali, delle loro funzioni, di ciò che essi avevano operato dal Medioevo alla fine dell'Ottocento e all'età del fascismo. Quasi sempre essi assecondarono la politica particolaristica di Chiese, Stati, corti, principati, feudatari, legati pontifici, quasi sempre furono organici a questi poteri forti, parteciparono dell'omogeneità dei blocchi borghesi, agrari, aristocratici, papali; quando erano di estrazione popolare, spesso, partecipando ai detti blocchi, si sentirono più vicini alla trasfigurazione del reale (ai miti, alle forme ideali, ai petrarchismi e ai platonismi) che alla realtà vera dei ceti sociali subalterni, del mondo contadino. Senza questa fortissima nervatura sociologica e storica non avrei potuto affrontare il problema del rapporto tra la corte estense di Ferrara e i letterati della corte in modo nuovo e integrale. Gli idealisti crociani lo avevano sorvolato o lo avevano ciecamente platonizzato, i positivisti erano ex professo monarchici, filodinastici (vedi Michele Catalano), si limitavano a descrivere le bellezze della corte, i broccati, i gioielli, i cavalli, i libri, i codici, le marchesane, Isabella, Lucrezia, le dame, i balli, i cavalieri, ecc.
Il mio studio La cultura a Ferrara al tempo di Ludovico Ariosto (1952) si serviva dell'indirizzo gramsciano sociologico per studiare il mecenatismo nelle sue implicazioni politiche, per fare vedere la libertà vincolata, vigilata, visitata di cui godevano gli umanisti, gli artisti, gli insegnanti, i medici e i legisti dello Studio di Ferrara. I poemi cavallereschi non erano poemi dell'armonia sociale e culturale ma si inquadravano nel sistema culturale di sostegno alla dinastia politica che con qualche briciola pecuniaria si arrogava il vanto di protettrice delle arti e delle lettere. Lo studio di tali rapporti mi serviva per penetrare nella sostanza culturale delle opere d'arte o di pensiero, per vedere che non si trattava di opere "disinteressate" ma, invece, legalizzate dall'ideologia etico-politica del signore, del duca, del mecenate. Ma per fare vedere che l'Orlando Furioso era una grande opera scritta da un uomo e non generata dalle Muse e dalle loro divine buccine, per fare vedere che quell'uomo era stato quello che era stato perché vissuto in quei tempi, con una particolare conoscenza, esperienza, pratica di vita, sofferenza e non era stato un medium bensì una persona storica mi sono servito delle idee estetiche di Galvano Della Volpe intorno alla funzione dell'intelletto nell'opera d'arte. Così potevo affrontare in Motivi e forme della poesia di Ludovico Ariosto (1953) il problema della poesia da una posizione antidealistica, in contrapposizione alla maggior parte dei critici.

La sociologia usata come strumento di una ricerca integrale, storica, culturale consentiva di conoscere i meccanismi del potere nelle corti rinascimentali, un potere che non era l'assoluto, il mostro soffocatore in modo fatale, ma un condizionamento che può essere combattuto, limitato, corretto, oltrepassato: nel rapporto con esso si vede l'uomo. Nella grande trama del poema Ariosto ironizzante oltrepassa i limiti ideologici del Medioevo, riscatta in nome della rinascita umana la ragione che vince sulla follia e sui capricci; ma Ariosto esalta anche il potere della poesia che crea fama e valore ai prìncipi, li salva dall'oblìo, fa dimenticare anche le loro malefatte. Mecenatismo e clientelato venivano fuori da uno studio sociologico e storico, non erano che elementi della critica ma con la concretezza dell'impostazione toglievano terreno alle fatuità idealistiche dell'arte divina, ispirata, solo spirituale, profetica ecc. La reazione antisociologica fu dura in quegli anni Cinquanta, in cui gli studiosi tardocrociani non vedevano ben definiti i limiti della sociologia della letteratura e temevano l'invasione della sociologia nei loro territori astorici. È per me dannosa la dispersione dell'empirismo sociologico di questi ultimi decenni, ruolo e limiti di ogni tipo di sociologia devono essere precisati con estrema cura e la sociologia non può avere pretese di universalità gnoseologica che sono — ma sempre storicamente — riferibili alla filosofia. Ma in quegli anni la sociologia della letteratura come scienza empirica nel quadro dello studio degli altri aspetti del "sociale" produceva, se bene usata con il modello gramsciano alle spalle, ottimi risultati.

I sospetti nei suoi confronti erano diffusissimi. Ricordo che nel 1956 ho sostenuto il concorso per la libera docenza di Letteratura italiana con una commissione formata da Emilio Santini, Mario Sansone, Alberto Chiari. Alla discussione dei titoli, parlandosi del mio libro sulla cultura a Ferrara al tempo dell'Ariosto in cui era dominante l'indagine sugli intellettuali alla corte estense con il corollario della loro dipendenza dal potere politico, Santini si sentiva offeso se parlavo di indagine critica: solo quando precisai che era critica sociologica ebbe pace perché la sociologia della letteratura doveva restare a un livello inferiore ed empirico, in ogni caso ancillare (solo più tardi le "ancillae", pervadenti, intrusive, scivolanti, da guitte quali erano cercarono di diventare, nella loro confusione, "dominae": mi riferisco anche alle altre scienze ausiliarie quali l'antropologia culturale, la psicologia e alle loro innumerevoli sottospecie, «flatus vocis» prive spessissimo di significanza).

L'apporto sociologico letterario fu caratterizzante in altri miei studi quali quelli sulla cultura malatestiana, su Gozzano, Guido Da Verona, Carducci, ecc. La dimora a Rimini mi consentì di documentarmi sociologicamente sul carattere del dominio malatestiano, del mecenatismo, dell'isottismo quale culto platonico-aristocratico in funzione della divinizzazione del signore e della dama (Isotta degli Atti, che morirà dopo Sigismondo, nel Liber Isottaeus premuore al signore per analogia con Laura di Petrarca dopo morta continuerà a vivere tra i celesti come sposa di Giove).

Lo studio su Da Verona tende a individuare sociologicamente gli aspetti della conoscenza parziale della realtà che il lavoro intellettuale produceva nell'ambito dei rapporti sociali esistenti e i modi in cui l'attività letteraria di Da Verona si collega con la crisi del ruolo dell'intellettuale. I rilievi sociologici mettono in evidenza la grande capacità artigianale dello scrittore, la varietà e la ricchezza dei mezzi di officina consapevolmente usati dal punto di vista ideologico dello scrittore per fare presa su quel pubblico. La critica dell'ideologia è nel volume un momento essenziale dell'analisi quando il riferimento ai modi di produzione, ai rapporti di classe non è casuale e si aggancia a situazioni concrete, storico-sociali. I temi più aderenti all'ideologia letteraria daveroniana sono quelli del superuomo minor, del vitalismo postmarinettiano, del protagonista dispendioso e antioperaio, del tango come motore del melodramma del romanzo-canzone, della lontananza, della donna erotico-esotica, del piacere del dolore ecc.

Belle époque e Modern Style nelle arti applicate sono i motivi sociologici su Gozzano (e in parte anche per Fogazzaro che comincia a essere studiato nel Modern Style) e sul suo estetismo decadente. La realtà come sogno, l'uomo di eccezione come ideale, la retorica dei sogni, gli stampi psicologici dell'avvento della prima guerra mondiale sono taluni connotati del rapporto di Gozzano con la realtà anche artistica del suo tempo. Della nuova generazione il poeta esprime l'anima «ingombra» e la «tristezza», il ripiegamento dello spirito di fronte alla realtà che egli guarda «tacito ed assente»: l'antirealismo fa sì che il poeta esalti retoricamente i simboli (Mondo, Vita, Niente, Tutto, Morte, Tempo, Spazio, Vecchio, Libro, Amore, Morte, l'Altra, ecc.).

Non certamente alla sociologia esterna è il richiamo negli studi su Carducci in cui la sociologia va a fondo nelle scelte del poeta che a un certo momento sgretola la costruzione dell'impegno civile e sostituisce alle opposizioni della storia il concetto pacificato di civiltà, assume l'arte greca come perfetta e si innalza all'eliso dell'arte pura. Qui la sociologia entra nelle diversificazioni culturali di una società che diventa sempre più consapevolmente borghese e innamora il poeta con la pedagogia, elemento morale borghese sul piano del didascalismo, dell'accademia. Il rapporto con il pubblico è intimamente connesso con l'arte di Carducci che sbuffa, protesta, rampogna, allega greci e romani per disdegnare il mondo ma si costruisce potenti travature nel mondo borghese di fine secolo, bolognese e italiano e con i componimenti di fine secolo, immersi in una atmosfera impressionistica, espressione di vita intima di fievole tensione, Carducci si allontana dal suo tempo e dalla vita partecipata.

Anche per Fogazzaro — che fu l'ideale di una società composita alla quale proponeva soluzioni gratificanti di ardimenti legati al filo del compromesso — sono stati ricercati sociologicamente i prototipi reali degli eroi e delle eroine dello "spirito" nel mondo settentrionale particolarmente Veneto-lombardo (Fogazzaro non ha mai parlato di un problema meridionale), personaggi aristocratici o alto e medio borghesi, tragedizzanti, infelici, dimoranti in luoghi di villeggiatura, di mondanità, luoghi esotici e del Belpaese estetizzante. Questi tipi si circondano di alta tragedia, di sentimento del mistero, le loro passioni anfrattuose si consumano nell'atmosfera di una vita superiore; al pubblico che richiedeva grandi passioni Fogazzaro si rivolgeva presentando drammi archetipici con i quali i singoli sofferenti affranti potessero confrontarsi o nei quali potessero rispecchiarsi: terminando di scrivere il Cortis Fogazzaro comunica a Elena di avere scelto per il romanzo l'esito che «accontenterà gli eletti, dei quali solo mi importa».

La sociologia della letteratura ci consentiva di individuare il pubblico aristocratico (soprattutto) e borghese degli scrittori cortigiani, i modi cospicui (in letteratura) delle relazioni con quel pubblico. L'operazione compiuta avveniva nel quadro della critica marxista, di indirizzo marxista come ricerca per trovare modi nuovi e idonei per indicare il nesso tra lo scrittore e la realtà, la dialettica esistente fra struttura e sovrastruttura. Lo scrittore era, prima di tutto, uomo, senziente, raziocinante, con idee su se stesso, sulla società, sui gruppi in mezzo ai quali viveva, sull'arte, sull'economia; senza questo primum qualsiasi lettura specialistica unicamente non può che essere indebita proiezione del modo di vedere del critico, rappresentazione di ciò che lui crede di vedere. Considerare lo scrittore come persona umana non era romantico, non era trasposizione di turbolenze e pragmatismi individuali perché il critico oggi non è romantico, sa leggere modernamente le personalità; lo scrittore come persona umana è la capacità di vedere lo scrittore non resecato dalla realtà, non vedere solamente il professionista o il dilettante dello scrivere (che è pure molto importante) ma i modi di vedere, di pensare, di sentire dell'uomo che trasforma (con metodi sempre particolari) la realtà: ma vederlo nella sua attività fase per fase, caratterizzare la sua evoluzione, le sue stasi, la sua involuzione.

A questo punto devo ricordare il contributo fondamentale che nelle mie indagini critiche ho ricevuto da Galvano Della Volpe dal 1951 in poi, contemporaneamente alla lettura di Gramsci. L'esclusività, la pertinenza assoluta della fantasia è per Della Volpe una forma di misticismo, di romanticismo adialettico. Il termine stesso di "immagine" poetica è per lui carico di eredità romantica e di misticismo estetico. Per lui la poesia, come la storia, è ragione concreta da cui non differisce negli elementi conoscitivi, gnoseologici; la stessa arte greca presuppone la mitologia greca, cioè la natura e le forze sociali stesse elaborate prima dalla fantasia popolare. Il legame storico, sociale dell'opera d'arte fa parte del piacere sui generis che essa ci procura e quindi fa parte della stessa sostanza strutturale, intellettuale: sicché nel suo nucleo razionale-concreto delle articolazioni del reale, nell'insieme di ideologie, fatti e istituzioni c'è l'humus storico la cui presenza nell'opera d'arte deve essere dimostrata dal materialista.

Se poesia e storia hanno gli stessi fondamenti conoscitivi, se condividono il procedimento razionale che presiede alla coerenza, la poesia risulterà sempre intessuta di storia e l'artista — come lo storico, come lo scienziato — deve fare i conti con la realtà e la verità. Anche l'irrealtà di contenuto di certi prodotti dell'immaginazione non può sfuggire al controllo o al riscontro con il reale: l'ippogrifo presuppone l'immagine reale del cavallo; le fantasie ironiche sono sempre in rappporto preciso con la vita e con l'esperienza, anche se sono fantasie di contrapposizione, di opposizione, di contrasto. Né le fantasie potranno essere tanto acute come fantasie, come immagini, da non essere anche pensieri e l'ironia ha sempre un carattere tipicamente intellettuale.

L'enunciazione che la metafora ha valore anche intellettuale e storico non comporta che l'arte sia o debba essere unicamente realistica tout court o sociale o impegnata; Della Volpe si occupa del realismo come un fenomeno estetico: arte e realtà sono legate tra esse dall'elemento intellettuale, e la sola coerenza poetica esistente è quella dell'ambito razionale interno all'opera d'arte che unifica le immagini e il molteplice dando coerenza e forma mentre la coerenza delle immagini di Croce è una coerenza solo fantastica.

Anche i voli pindarici sono stati considerati, in poesia, immagini libere da vincoli razionali mentre, invece, essi sono sempre stati dei traslati tipici, nessi delle cose più dissimili e lontane, dominati dalla ragione-intelletto grandiosa e dalla grandiosità (dai miti agli agoni, alle considerazioni esistenziali, etico-religiose: da tali ragioni la poesia non era dissociabile).

Per chi aveva desiderio profondo morale di partecipare al rinnovamento della società la protesta giovanile del Sessantotto non poteva non suscitare grandi speranze di assistere al mutamento della società cristallizzata e inerte e delle sovrastrutture che direttamente o indirettamente ne riflettevano la putrefazione: scuola sclerotizzata e narcotizzata, università governata da baroni che occupavano posti di comando e non producevano alcuna attività sociale. Ma la protesta giovanile non si collegò con il mondo del lavoro, assunse motivazioni elitarie, sofistizzò sull'interpretazione del negativo in positivo, sui richiami del nulla, sulla destoricizzazione dei problemi per studiarne gli archetipi e proiettarli nell'assoluto. La volontà di distruggere gli strumenti della comunicazione come portatori di confusione accrebbe il disordine. Ma non era il movimento giovanile in quanto tale a creare confusione, erano pseudo intellettuali sconclusionati che scambiavano il "movimento" per creazione (ma non tutto fu negativo e talune formule di richiamo al contemporaneo, alla lotta, alla fantasia esercitarono una giusta seducente attrazione: rimasero, però, girovaganti per l'aria).

Ricordo di avere accolto con favore la ventata di rinnovamento, e nei primi anni Settanta venni sviluppando nella mia attività i temi della cultura alternativa ("altracultura", minoranze, dialetti) e proponendo uscite, rimedi, compensazioni, restauri, correzione di errori compiuti, per modificare la realtà socio-culturale. La letteratura si doveva sporcare con la storia. Venni sviluppando collane di testi dialettali, di testi grecanici, di critica sull'identità dialettale minacciata, edizioni di testi dialettali inediti di Vincenzo Ammirà, di Pasquale Creazzo, di Pasolini, di monografie intorno a minori significativi: cultura popolare e storicizzazione dei suoi temi fu l'indirizzo di queste ricerche miranti allo scoprimento di un filone sommerso mantenuto subalterno, censurato, soppresso. La sociologia della letteratura costituì la nervatura dell'indirizzo per il carattere storico-sociale dei testi e dei problemi collegati alla vita della nazione: sottomissione dei documenti non aderenti alla cultura ufficiale del Regno d'Italia; manutenzione subalterna (censura, narcosi, soppressione) di tali documenti mediante l'enfatizzazione dell'estetica della liricità i cui prodotti venivano valutati in modo mistificatorio; valore subalterno assegnato alla letteratura satirica, deformatrice, polemica; collegamento tra ideologia moderata o reazionaria con il gusto ufficiale.

Il movimento contestativo consentiva di accedere a una cultura intesa come "rivoluzionaria" che non giunse, però, a dare frutti determinanti. Fu una ondata lunga e investì per anni la mia attività facendomi volgere allo studio del rapporto tra letterature regionali e letteratura nazionale. Fin dagli studi sulla cultura a Ferrara al tempo dell'Ariosto avevo cercato di liberare il realismo dalla subalternità culturale imposta dall'ideologia idealistica cortigiana: era stato il caso di Antonio Cammelli detto il Pistoia, poeta satirico, realista, anticortigiano. La letteratura nazionale italiana è totale, culturalmente e civilmente, nei suoi momenti di realismo, naturalismo, verismo; ha cercato, invece, di inglobare, sottomettendole, le letterature regionali nei suoi momenti aristocratico-cortigiani, formalistici, idealistici. Tale vicenda aveva per me importanza sociologica e metodologica.

Negli anni Settanta (fino al 1976) mi fu dato l'incarico, in qualità di Ispettore Centrale del Ministero della P.I. (Direzione Generale Istruzione classica, scientifica e magistrale), di svolgere i corsi di aggiornamento per i professori di quella Direzione tenendo conto della contemporaneità e dell'interdisciplinarità. Fu un'occasione irripetibile per sperimentare nuovi contenuti e metodi ai fini della riforma della scuola media superiore unitaria (con opzioni), della verifica delle ipotesi di nuovi programmi, dello svecchiamento didattico. L'occasione consentiva una sperimentazione di massa e con l'aiuto di ottimi collaboratori (anzitutto Ersilia Oricchio che era a capo dell'AIM, Pietro Tripodi direttore del Laboratorio Scientifico Sperimentale di Foligno, Giambattista Salinari, Giovanna De Sabata, Pasquale Modestino, Girolamo Sotgiu, Nicola Badaloni, Giuseppe Petronio, Mario Sansone, Alberto Asor Rosa, Silvio Abbadessa, Aldo A. Mola, l'Ispettore generale Enrico Dalmasso, gli Ispettori centrali Giacinto Margiotta, Ettore Orlandini, Vera Lombardi, Lorenzo Caldo, numerosi docenti universitari, presidi, professori, sperimentatori) ho potuto ogni anno raggiungere migliaia di docenti che venivano a frequentare i corsi di aggiornamento. Tali corsi erano fondati su lezioni, dibattiti, gruppi di studio, elaborazione — per ciascun corso e relativamente a ciascun tema — di documenti sull'argomento e sulla riforma; i medesimi docenti di ciascun corso venivano richiamati per seminari di tre giorni durante i quali riferivano intorno a ciò che avevano potuto attuare nella scuola, alle difficoltà incontrate. I temi dei corsi riguardavano tutte le discipline o gruppi di discipline, i problemi erano sempre posti in rapporto con la società e storicizzati, non piovvero sui corsi gli sfilacci formalistici che preludevano a un nuovo infecondo idealismo. Furono trattati i rapporti tra le culture regionali e la cultura nazionale, tra la letteratura e il teatro (il grande organizzatore dei corsi riferibili al teatro fu Ruggero Jacobbi), i caratteri della letteratura emiliana nel Novecento, il Rinascimento a Ferrara, l'età del positivismo in modo interdisciplinare, l'età del romanticismo, la letteratura nel primo Novecento, i problemi dell'illuminismo (Giuseppe Petronio portò il problema dell'«attività letteraria», della storicizzazione di Arcadia e Illuminismo, della cultura di massa e di consumo nella società delle masse), il rapporto tra dialetti e lingua, dialetti e scuola (Pasolini una settimana prima della fine tenne una mirabile conversazione sul «Volgar'eloquio»), culture minoritarie (grecanica, albanese, occitanica in Calabria), a Livorno ebbero voce tutte le minoranze linguistiche, la scienza nel Rinascimento, nell'età barocca, la storiografia di Manzoni, il rapporto tra ideologia moderata e arte nell'opera manzoniana, ecc. Tutti gli aspetti della cultura sommersa, negata, le ideologie letterarie dei dialetti, il rapporto tra lingua nazionale e classi al potere vennero trattati con immenso favore da migliaia di docenti delle scuole medie superiori i quali combatterono una vera battaglia culturale per il superamento della riforma Gentile, per portare nelle scuole nuovi contenuti e nuovi metodi.

Nei primi anni Settanta i partiti politici presentarono progetti per la riforma della scuola, ma nessuno di essi giunse in porto, e avversari delle nostre proposte che nascevano dal contributo di migliaia di docenti furono i democratico-cristiani: taluno di essi, come il senatore Spigaroli, piacentino, presentò interpellanza per ostacolare lo svolgimento dei corsi di aggiornamento. Era anche prevedibile, perché dall'Unità d'Italia in poi ciò che ha svolto l'ufficio AIM (Aggiornamento Insegnanti e Metodi) in quegli anni non era mai stato tentato e mai ad alcun tentativo erano seguiti risultati di tale rilievo storico e culturale.

Di tutta quell'immensa attività non esiste al Ministero della Pubblica Istruzione una minima traccia: come se nulla fosse avvenuto. La sociologia della letteratura ebbe gran parte nei dibattiti e nella formulazione di programmi e di proposte didattiche. Essa serviva a correggere l'idealismo fumoso della riforma Gentile, era uno strumento prezioso; la critica è altra cosa, è sintesi di una attività di ricerca interdisciplinare e storica, è valutazione di tutti gli elementi. Anche il termine "società" venne contestato dalla destra cattolica e reazionaria come un pericolo di lesa maestà per l'arte e la poesia: una modestucola insegnante priva di filosofia e dogmatica, retriva, fu tra i tenaci oppositori. Purtroppo la "sventurata" sarebbe diventata ministro della Pubblica Istruzione: Falcucci.

Eppure non si trattava di gruppi aderenti a «servire il popolo» o a «lotta continua» e simili ma di equilibrati riformatori i quali cercavano di dare una sterzata all'insabbiato carrozzone scolastico-didattico italiano. Certamente non mancarono i superficiali tifosi della "lettera", i deliranti patiti della contemporaneità, destoricizzanti, i quali non capirono che estrarre dal passato gli elementi "contemporanei" è possibile dopo avere storicizzato il passato e avere visto ciò che può essere attuale; non capirono che il concetto di "contemporaneità" non vuoi dire attualizzazione, che esso non cassa la storia né la deforma. Non mancarono in quel movimento che interessò profondamente la scuola i libertari e gli anarcoidi, ma furono delle frange mentre, invece, tutta la scuola ricevette forti motivazioni riformatrici alle quali seguì, nel tempo, una demotivazione totale con i «decreti delegati» che segnarono la fine della sperimentazione attiva e costituirono l'ipocrisia del sociale istituzionalizzato per evitare le riforme.

Ma metodo sociologico nella letteratura, valore dell'intelletto nella creazione artistica hanno importanza episodica e non globale se manca la visione democratica del mondo e dell'arte, se la terminologia anche moderna rimane una formula e non diventa sostanza. Anche intellettuali appartenenti alla sinistra non riescono a intendere che viviamo in una società di massa (successiva all'epoca borghese e a quella dei numerosi ceti piccolo e infimo-borghesi), che massa non vuoi dire di per sé confusione e uniformità, che i ceti della società di massa si aggregano e si separano in modi vertiginosi, frantumandosi e distinguendosi sicché le spinte sono le più varie e le meno suscettibili di classificazione o definizione generica. Del resto la lotta perché ci fosse base di partenza culturale nella scuola e nelle università potessero studiare tutti, la battaglia contro i privilegi della scuola di classe, contro il falso umanesimo prevaricatore nei confronti della scienza e della tecnica, l'insorgenza contro l'interessato eurocentrismo, contro il razzismo, i confessionalismi, gli integralismi avevano come obiettivo la partecipazione del maggior numero di persone ai beni della cultura. Le ultime parole di una famosa lettera di Gramsci a un figlio si chiudevano con l'esortazione emblematica ad andare verso il maggior numero di uomini abbattendo pregiudizi ed eliminando la falsa coscienza. Il significato, la direzione, la meta della battaglia politica e culturale di tanti uomini anche diversi per formazione e struttura erano questi. Naturalmente esistevano anche gli intellettuali della "simulazione onesta", con la mente a organetto, che si dilata e si restringe ma costoro sono contrassegnati dal vuoto e dalla caducità. Quando Elémire Zolla scrive che «nulla può sussistere nella dimensione di massa che abbia un significato interiore» non fa che rifiutare la concretezza storica dell'agire umano, non fa che porsi in una sfera di "interiorità" che non potrà mai definire in modo diverso dal disprezzo che egli ha per chi non sia sedicente letterato o sedicente spiritualista (spiriti profetici, poetici, metaforici, turibolanti, essenze, anime, incorporei, idealisti ecc.). Non c'è bisogno di arroccarsi in materiale eburneo per rifiutare i prodotti in serie di oggi (ma anche quelli di ieri: autostrade di petrarchismi, barocchismi, arcadismi, romanticismi ecc.): quel concetto aeriforme, la nube universal-totale di poesia, è scomparso con il platonismo e il misticismo delle classi e dei gruppi che lo avevano creato, covato, riprodotto; sono scomparsi i generi letterari prodotti da quelle società e altri sono subentrati, prodotti dall'acculturazione della civiltà del consumismo industriale; i modelli che sentimento e immaginazione creano oggi sono ben diversi. All'eroe epico del romanzo (cavalleresco, storico, verista ecc.) succedono altri eroi della cultura di massa; non è necessariamente l'eroe della crisi o dell'avanguardia a essere uno dei segni del tempo che lascia cadere i formalismi, i decadentismi, gli stilismi, gli accarezzamenti linguistici. Queste ricercatezze esistono ancora ma hanno il carattere delle croste, dei rimasugli, degli avanzi, perché non nascono dal turgore del rimescolamento ma dal raccogliticcio dei depositi.

A tale consapevolezza della letteratura di massa come la letteratura in cui sboccano le infinite culture dei gruppi in movimento (e, perciò, vitali, essenziali) non sarei giunto senza avere avuto conoscenza della fase del pensiero metodologico di Giuseppe Petronio rivolto da una trentina di anni a questi problemi. E merito grandissimo di Petronio avere avuto, in tutte le fasi del suo pensiero estetico e della sua attività letteraria, un punto di vista, una visione democratica, una particolare attenzione al rapporto tra vita reale, concreta, storica, e la letteratura, avere rifiutato i nominalismi, gli estetismi, le droghe idealistiche, decadentistiche, gli ammanti verbalistici e confusi di proclamazioni innovatrici che erano, invece, ideologizzazioni aristocratiche, cerebrali, rimasticature passatiste. Proseguendo con metodi moderni la polemica desanctisiana contro il letterato puro, Petronio ha esaminato la rivoluzione culturale conseguente all'uso degli strumenti di comunicazione di massa, il sovvertimento dei valori letterari, il mutamento di gusto e di cultura avvenuti con il mutamento stesso della società. Il letterato puro piange perché non è capace di comprendere il grandioso processo di trasformazione che si sta verificando (non certamente nel migliore dei modi possibile); ma piangono anche i critici i quali non riescono ad avvicinare la letteratura di massa a quella del passato che per molti critici era soltanto valida in quanto arte alta (cioè considerata alta perché arte di temi di alienazione, di incomunicabilità, di avanguardie, del negativo ecc.). Petronio ha chiarito che la letteratura di massa, la quale comunica al lettore messaggi e rappresenta personaggi e fatti, comprende diversi livelli di produzione, di attività in relazione all'intrecciarsi e condizionarsi a vicenda di gruppi sociali diversi come prospettava Gramsci quando vedeva da lontano, col concetto di egemonia, una cultura popolare omologa alle necessità reali dei gruppi sociali operanti per trasformare anche il processo culturale.

Senza una concezione positiva dell'attività delle masse, del loro ruolo storico, qualsiasi sostituzione di moduli sociologici a quelli critici "letterari" (linguistici, retorici, estetici), scrive Petronio, è non significante, perché anche per la critica vale la legge propria dell'arte «secondo cui occorre andare al di là dei moduli formali e scoprire il punto di vista ideologico, il solo che dia senso e valore» (G. Petronio, Letteratura di massa. Letteratura di consumo, Bari, Laterza 1979, p. LXIII). Il critico, inoltre, studiando l'arte di massa non potrà valutarla in riferimento a se stesso, alla propria formazione, ma dovrà farlo in riferimento al pubblico per il quale quell'arte è stata prodotta e che ne è il consumatore. Come potrà ostinarsi il critico a chiamare poesia nel significato tradizionale (derivante da una tradizione culturale classica, aristocratica, borghese ecc.) la qualità di prodotti e generi fabbricati in opifici, officine diversissime da quelle di altri tempi, con materiali del tutto estranei alle confezioni (già dette creazioni) precedenti? Se si vogliono chiamare linguaggi i materiali variamente elaborati va bene perché essi possono essere volti agli usi più diversi. Ovviamente non è da considerarsi prevalente, come certi critici presumono, il linguaggio della nevrosi o della crisi o delle commistioni linguistiche. Le tesi di Petronio sono le più storicamente democratiche perché interpretano i modi in cui si svolge la cultura nell'età della società delle masse, evitando i pericoli delle secche dello specialismo(spesso ingiustificato, personalistico, combinatorio di tante interpretazioni) e della letterarietà (che è concetto estremamente generico nella sua pseudo universalità).

Nell'attuale situazione culturale di eccesso di prostrazione a causa dell'ipotetica confusione universale (confusione che c'è ma è accresciuta dalla desistenza intellettuale e morale) i discorsi più alienanti sono fatti da coloro che dicono di occuparsi di poesia e di esserne i sacerdoti: insomma da sciamani che ignorano ogni discorso storico intorno ai problemi della poesia. Costoro parlano di morte dell'arte quale conseguenza dello sviluppo tecnologico (che, aggiungono nella loro ignoranza, nulla di positivo apporta al mondo perché la scienza non ha valore reale, non ha valore assoluto ecc.), del negativo che è il vero positivo, della parola salvatrice, senza mai richiamarsi all'arte quale attività storica umana mutante di forma, qualità, articolazione a seconda dello svolgimento della civiltà e delle attività degli uomini.

Questi nullisti negatori del rapporto tra arte e attività umane non credono nell'arte come energia della vita e non la vedono partecipe, responsabile, sodale della nostra esistenza. Piuttosto la vedono come fumo, gioco, lontana dalla realtà. La complessa capacità di deformare il reale nelle sue deformazioni, nel disumano, di fare vedere satiricamente le contraddizioni del costume e dei modi di vivere, di sgonfiare con la comicità, con l'ironia le architetture della donferrantesca impaludata pseudo cultura, manca agli intellettuali prima descritti. Eppure la storia, la sociologia della letteratura possono mostrare che questa terrestrità dell'arte, la sua materiale essenza artigiana quale prodotto elaborato dagli uomini come strumento omologo dei loro stadi di civiltà, può assumere qualsiasi forma (dal surreale al satirico, al comico, perfino — oggi — al lirico!) purché nasca dall'attività, dal lavoro concreto degli uomini.