Firenze, La Nuova Italia, 1953

Roma, Bulzoni, 1975

La cultura a Ferrara
al tempo di Ludovico Ariosto

PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE (1975)

La cultura a Ferrara al tempo di Ludovico Ariosto - di Antonio Piromalli La cultura a Ferrara al tempo di Ludovico Ariosto - di Antonio Piromalli

 

 
     

 

 

Questo studio, concepito durante vari anni di dimora a Ferrara e scritto a Rimini, riappare a quasi venticinque anni dalla sua ideazione. Esso fu ideato come terreno di metodo e di cultura per esaminare l'arte di Ludovico Ariosto, come abbiamo immediatamente fatto in Motivi e forme della poesia di Ludovico Ariosto (Messina-Firenze, D'Anna, 1954) in cui abbiamo cercato — e ci hanno aiutato costanti colloqui messinesi con Galvano Della Volpe — di dimostrare che gli elementi intellettuali e artistici non si possono scindere nell'Orlando Furioso e che anche per l'Ariosto non può valere una formula assoluta (e, meno che qualsiasi altra, quella di poeta dell'Armonia). (continua dalla pagina "La critica letteraria" )

Il nostro studio riappare con lievissimi ritocchi formali, con qualche aggiunta intorno al Pistoia e con una Appendice. Esso ha esaminato, per la prima volta, le caratteristiche e la formazione dei vari gruppi intellettuali cortigiani, borghesi e popolari della Ferrara dell'Umanesimo e del Rinascimento come elementi intermedi tra i fenomeni economico-sociali (ampiamente trattati in tutto il volume) e la personalità dell'Ariosto. Abbiamo studiato le strutture economiche, i rapporti tra le classi e l'ideologia cortigiana estense come elementi determinanti di quell'età, rigettando il rapporto meccanico tra i fenomeni economico-sociali e la produzione artistica; la polemica con la critica positivistica e con quella idealistica era indispensabile per porre al centro della ricerca i gruppi intellettuali, i condizionamenti e il conformismo di taluni, la libertà intellettuale e morale di altri. L'Ariosto era un punto di riferimento di quella cultura di classe, in quanto creatore di una nuova umanità e di una nuova arte.

La nostra documentata polemica postulava una ipotesi - gramsciana - che oltrepassava i parziali elementi offerti da positivisti e da idealisti e preparava il terreno per la lettura dell'arte del Furioso.

Lo studio - che è da leggere in tale funzione ed è completato dall'altro studio del 1954 - nasceva in epoca di critica stilistica e di retrodatazioni culturali, quando diversi critici assumevano i coturni di Spitzer e di Curtius e vedevano in lavori come il nostro soltanto il pericolo della rozza sovrapposizione della ricerca storico-economica alla poesia; quei coturnati ripetevano (e taluni continuano a ripetere) come formule chiuse i termini contemplazione, immaginazione, consolazione etc., ancor oggi che i Cinque canti e le quattro «giunte» al terzo Furioso (con i motivi dell'insidia, della crudeltà, del tradimento, della slealtà) intaccano gravemente la prospettiva armoniosa.

Il nostro lavoro ha avuto una notevole fortuna (di cui rendiamo ragione nell'Appendice) e non è stato soltanto un sasso gettato nei vetri ma ha voluto rappresentare un contributo allo storicismo integrale, gramsciano, intorno al problema dell'Ariosto. Oggi si parla di un «nuovo corso della critica ariostesca» (Caretti) e ristampando il volume ringraziamo tutti coloro i quali nella discussioni ci hanno aiutati a verificare le nostre prospettive e ad arricchirle.

Roma, 16 giugno 1974.

 


Lo stemma estense

 

Dallo stesso volume riportiamo, qui di seguito, la "Parte IV" 

La cultura a Ferrara al tempo di Ludovico Ariosto

di Antonio Piromalli
Roma, Bulzoni, 1975 – 2° edizione (pp.161-170)

 

Le contraddizioni della società

 

Lo squilibrio esistente in Ferrara alla fine del Quattrocento e nei primi decenni del Cinquecento risulta dai documenti gravissimo nonostante le ipotesi conciliative del Burckhardt (1) che parla di una sorta di idillio sociale nell'età del Rinascimento italiano e vede nelle piccole città d'Italia i contadini tornare la sera a casa e mutar nome e chiamarsi cittadini e godere dei benefici di uno stato equilibrato e pacifico. In Ferrara anche i critici parziali e di tendenza vedono (senza trovarne i nessi e solo incidentalmente, però) lo « squilibrio di ricchezze », il « senso greve di oppressione nelle classi plebee » (2) ma, come abbiamo già visto col Pardi, tutto è spiegato acriticamente con la « turpitudine e la forza dei tempi » (3) o con « l'età turbolenta » che agita invidie e rancori. Ma non c'è causa psicologica che sostanzialmente possa dare le ragioni di un indirizzo economico che ha le proprie ragioni nella politica di Borso (« trarre qual sugo più si potesse » dai sudditi) e degli altri duchi, nel fiscalismo che gravava sul popolo quante più feste, cacce, nozze ecc., la corte celebrasse. Quella politica era parziale perché si concludeva a vantaggio delle sole classi dominanti e solo i gentiluomini partecipavano dei divertimenti della corte (4) preoccupata di ben figurare all'arrivo di legazioni straniere, al passaggio di sovrani, principi, prelati ecc., e di affermare il proprio splendore e la propria grandiosità. La mediocrità umana e politica degli Estensi si manifesta nell'apparato di sontuosità e di fasto con cui partecipano alle cerimonie ufficiali o celebrano le loro festività; erano giunti a identificare lo stato con la loro famiglia ed Ercole I, preso dall'ambizione di apparire generoso oltre qualsiasi signore del suo tempo, scrisse ai suoi commissari, nell'occasione dell'arrivo di una comitiva da fuori del ducato: «che le cose passino con honore, con honore e con honore » ovvero, in altra occasione: « Appena letta la lettera, tu la exequissi per quanto hai cara la gratia nostra et amore se bene tu dovessi impignare ciò che tu hai al mondo ». Circa un decennio più tardi, nel 1486, ormai più impoveriti i sudditi per la rovinosa guerra contro Venezia, il duca cinico e superficiale si meraviglia, in una lettera, che non avvenissero condanne per giuoco, bestemmie, contrabbandi, mentre un tempo le condanne davano un profitto fiscale di circa ottomila lire annue: « E sì – scriveva - che la brigata non è già più diventata sancta che la se sia stata per il passato! » (5) e concludeva che o gli ufficiali trascuravano il loro dovere o venivano corrotti con doni perché non vedessero falli e reati. In una signoria in cui, come scrive il Burckhardt, non esisteva una separazione delle casse e il ministro della finanza era al tempo stesso il ministro della casa ducale (6), era logico che un duca festaiolo e gaudente operasse tassazioni e fiscalismi in vantaggio della propria famiglia scialacquatrice e corrotta. La mancanza di controllo economico spingeva gli Estensi allo sfruttamento al fine di sopperire alle spese di lusso per cui quei signori erano chiamati magnifici. La magnificenza è un carattere personale degli Estensi e dei nobili cortigiani: Isabella acquista a Roma e Venezia pietre preziose incise e di balasci con perle, gioielli smaltati, oggetti in calcedonio si adornavano i personaggi principali come l'inventario dei preziosi del 1442 ci fa pensare e le cronache e i documenti ci confermano. Isabella fu, come dicono, dittatrice del gusto del suo tempo e portò a Mantova, oltre l'eleganza, la sontuosità degli abbigliamenti; essa non avrebbe potuto rinunziare per la posizione che occupava, ai preziosi che il marito le consigliava di impegnare per le necessità in cui i marchesi si trovavano: «io restaria in tutto priva de zoglie da poter portare et me seria forza redurmi a vestire de negro, perché vestendo de colore et de brocato una mia para senza zoglie serie caleffata »(7). La visuale di classe condiziona tutti gli atteggiamenti di falsa superiorità morale, di vanagloria, di pseudo-cultura assunti dai personaggi estensi e che contrastano coi sentimenti umani e di solidarietà. Il lusso signorile si accompagna all'irrequietezza di mantenere l'opulenza conquistata e alla mancanza di scrupoli nel passare sopra alle nequizie. In varie occasioni i duchi affermano di essere solleciti del benessere del popolo ma alla cornice di fasto di Borso, di Isabella, di Ercole I, dei cortigiani aristocratici si contrappone la serie infinita di patimenti, di soprusi, di violenze sofferte dagli strati più umili del popolo come conseguenza di un ordinamento sociale fondato sullo sfruttamento dei molti da parte di un'oligarchia cavalleresca e sul mantenimento della divisione di oppressi e oppressori. Né poteva essere diversamente perché la condizione della sussistenza degli Estensi si fondava su presupposti politici ed economici rigorosi di classe. Dovremmo piuttosto meravigliarci del sostegno che qualche studioso ha dato al governo estense giustificandone il carattere di classe e difendendolo. In una memoria del 1908, infatti, l'annotatore ed editore dei diari ferraresi (8) polemizza con un erudito, illustratore della vita degli Estensi, il Gandini, il quale aveva parlato di usi estensi medievali e dei « contrasti di lusso e sudiciume » (9) presso la corte di Niccolò III. Il Pardi difende gli Estensi (spiegando che le entrate dello stato dovevano bastare a stento « al mantenimento delle numerose amanti e dei figli ancor più numerosi, tra legittimi e bastardi, del sensuale Niccolò III ») contro un unico rilievo non superficiale del Gandini, relativo alle contraddizioni di una corte in cui i paggi vestono di seta e d'argento e dormono sulla paglia. Certamente le contraddizioni sono sempre più numerose, anche al di là di rilevanti casi particolari (10) quando si confronti il lusso della corte e i monopoli di molti articoli di sussistenza da essa goduti (carni salate, pesci, frutta ecc.)(11) con lo stato di indigenza estrema della maggior parte dei sudditi e con il dazio applicato sui generi di prima necessità. Il privilegio dell'oligarchia cortigiana e aristocratica genera depauperamento nelle altre classi e il processo di arricchimento dei pochi genera povertà per gli altri. Alla « bella baronia » di signori e borghesi cortigiani viventi di una cultura raffinata quanto elegante e accreditata da una tradizione di mondanità, e allo Studio sviluppatosi come mezzo di propaganda ideologica per le classi dominanti, fa contrasto l'ignoranza delle plebi; e nella risorgente cultura del classicismo che dà la fiamma dell'amore per l'antichità e tende a plasmare un tipo di uomo dominante gli eventi con l'intelligenza, la corte è un bivacco di poveri buffoni, nani, che vengono sbattuti da una città all'altra e che la sera sollazzano, con i loro tentativi di riso e con le adulazioni, lo spirito dei cortigiani: « El vostro desipolo Fertela manego de garnada » si definisce il buffone Frittella, ormai vecchio e povero, in una lettera a Isabella del 13 aprile 1513.

L'età che si gloria dei nomi di perfetti cavalieri aristocratici non applica alle donne del popolo le regole della cortesia (12) e tutti i letterari omaggi convenzionali sono nell'arte per quei feticci di una classe elevata che vengono ricordati come le donne più intelligenti o più eleganti di quel tempo. Un principe benevolo verso i sudditi, come si diceva Alfonso I, fa scatenare improvvisamente in una piazza gremita di folla un toro aizzato da cani facendo uccidere donne e bambini. Così leggiamo in una lettera di Alfonso Facino al marchese Gonzaga del 7 febbraio 1523, come documento di contraddizioni che sboccano nella ferocia accanto ad altre che sboccano nell'osceno e nel licenzioso. Alla dama più spirituale del Cinquecento, come è stata definita, un corrispondente, Francesco Bagnacavallo, può liberamente scrivere, il 28 giugno 1491, che una comitiva di cortigiani si meravigliava che la marchesa « mandi a tuore coglie. Assai fra talli è che dire che la marchisana è venuta al bisogno di coglie. Io tropo cum talli poltroni combato cum dire che V.S. non adimanda coglie, ma bene adimanda un sonatore el quale per sopranome ha quello bruto nome de Coglie ». Camillo Costabile scrive a Isabella che attende da lei una medicina a base di mercurio « perché al presente ho in volta una bella putana, la quale spero ad ogni modo di conquistare » e poiché la medicina non gli giunge scrive che « se mancasti di mandarmelo, me daria l'animo col tempo di nocervi nela persona e nel stato senza havervi ripecto » e Rinaldo Ariosto, malato pur egli di mal francese, scrive alla stessa per avere una « bochaleta de aqua » per curarsi. Sempre ad Isabella, che pare avesse il privilegio di attirare le confidenze dei cortigiani, Guido Postumo scrive dalla Francia il 3 giugno 1511 che le donne francesi sono « humanissime in lasciare basciare, tocharse et abraciarse ».

Così si manifestava la sostanza sensuale e mondana di quella corte lussuosa e gaudente, ma più gravi sono gli effetti delle contraddizioni della società se si considera l'amministrazione della giustizia. L'esercizio del potere signorile fin dal secolo XIII conduce all'elaborazione di statuti che, pur nelle successive riforme, conservano l'impronta medievale in tutti i rami del diritto ma specialmente per ciò che riguarda il diritto pubblico interno (l'autorità del principe, cioè, e l'ufficio dei magistrati) e lo statuto dei malefici come era chiamato il codice dei delitti e delle pene (13). In questi statuti domina il concetto medievale della maestà e le condanne a morte, con conseguenti confische di beni, per delitti di lesa maestà, sono frequenti nei domini estensi. L'amministrazione ducale istruisce i processi in cui il duca è parte sicché in tali casi arbitro delle cause ed estensore della sentenza è un funzionario del duca stesso. Lo stato sono il duca, dal quale emana il potere, e l'aristocrazia della corte; gli avanzi di legislazione barbarica proteggono esclusivamente le classi dominanti in qualsiasi circostanza e le formule «amputetur ei una manus », « amputetur ei unus pedum » sono praticate frequentemente quando i rei sono cittadini comuni o contadini. I diari ferraresi in proposito ci tramandano gli efferati sistemi di giustizia in uso nel Quattrocento, dietro i quali si avverte il buio di lunghi secoli di medievali arbitri e disumanità. Nel 1476 un assassino, a cui è stata tagliata la mano destra, è trascinato, legato a un'asse di legno, in piazza dove viene impiccato: « Dapoi ge fu talgiato il lazo e cadette sopra li cuppi del teraxo, et anche parlava; et butado di cuppi in terra, incontinenti ge fu talgiato il colo. Dapoi fu facto in quatro parte per exemplo d'altri » (14) e nel 1481 si taglia « la lingua a uno vilano che havea testificato falso, et menato per la citade immitriato »(15). Lo Zambotti ci riferisce che nel 1482, essendo stati catturati il figlio di Francesco da Ortona che era familiare del duca e il servo, i quali, mascherati, avevano assalito e ferito una donna, il servo viene impiccato e il figlio del cortigiano esce salvo (16). Gli esempi di una parzialità di classe nell'amministrazione della giustizia estense sono infiniti e noi passiamo piuttosto a considerare come gli spettacoli dei supplizi fossero degli spassi della corte e come dai prìncipi venissero appunto in tale senso offerti al popolo. In uno dei fulgidi anni dell'umanesimo latino, nel 1497, il Prosperi scrive a Isabella a proposito della condanna di una donna rea di amori illeciti: «La festa fue qua grandissima, el romore grande eum la mostra della carne della povra dona et fortemente battuta dal boglia et bersagliata dali putti et etiam da multi grandi ». La donna dovette percorrere le vie principali della città con una mitria in capo e poi fu condotta davanti ai cortigiani che la coprirono di zucche marce e rape (17). Per Isabella fatti del genere erano argomenti di distrazione mondana come lo erano per la corte di Ferrara in cui tutte le aberrazioni erano consentite, dalle « stupende cose stomogose sporche » al tradimento, dall'adulterio al veneficio e all'intrigo, dall'ipocrisia religiosa al malcostume morale; su tali vizi scendeva poi il bel velo dell'umanesimo elegante o si diffondevano gli incensi delle processioni religiose che coprivano le vergogne di una società organizzata sulla prepotenza di classe o sulla disumanità della cultura. Leggiamo nel cronista Caleffini che più volte in Ferrara avvenne che uomini mascherati (aristocratici o cortigiani) prelevassero una levatrice dalla propria casa con la violenza, durante la notte, e la portassero in un nobile palazzo perché aiutasse una partoriente mascherata a dare alla luce; il neonato veniva poi gettato sulle braci e tenutovi fermo con degli spiedi dopo che la levatrice era stata costretta a battezzarlo con acqua santa. Si parlava poi sommessamente di ciò in qualche vicolo buio ma nessun nome veniva fuori e la vita continuava tranquillamente il suo corso.

Gli Estensi furono legati alla Chiesa per necessità di dominio e la religione fu per essi « instrumentum regni »; il loro dispotismo non poteva generare che passività e mancanza di volontà collettiva e il cattolicesimo formalistico ed estetico di un Ercole I favorisce la superstizione, le processioni, le cerimonie religiose, mentre la eccezione di Renata di Francia è quella di una straniera che viene nella corte con una sua ideologia religiosa ben maturata. Ercole I segue il culto religioso a fine di propaganda per il popolo: la signoria è la famiglia d'Este e ad essa il popolo deve sentirsi unito nella religione. Perciò il duca fa sorgere chiese e monasteri, considerandoli elementi di protezione del suo governo; fa rapire da Viterbo una suora, Lucia di Narni, rimasta vergine nel matrimonio per averla a Ferrara, fa venire ancora una suor Colomba che solo viveva del pane eucaristico somministratole dall'angelo, fa elemosine di barili d'anguille marinate e di cefali, formaggi, salami, legumi ai conventi quasi ogni giorno; e in occasione del matrimonio di Anna Sforza i frati di S. Spirito scrivono al duca che regali loro un vitello « ad ciò possiamo etiam Nui fare lo nostro carnevale »(18). Un altro elemento del complesso religioso di Ercole I, che si unisce a quello politico-dinastico, è la paura che fa svanire la religiosità in misticismo e addirittura in pratiche di scongiuri e incantesimi che il duca fa fare per conoscere le trame politiche delle corti italiane. Però un giovane che è accusato di avere scongiurato il demone nella chiesa di S. Maria in Vado la notte del venerdì santo, è bruciato sul rogo secondo quanto scrive il Prosperi a Isabella il 15 aprile 1497 (19). La religione come fanatismo e oscurantismo è mezzo, quindi, di governo e piuttosto che illuminare essa getta altre ombre tenebrose sugli Estensi il cui regime non si risolve in chiarezza di governo ma in efferatezza, corruzione, superstizione per i contrasti di classe che incarna.

La privatizzazione dei profitti da parte degli Estensi non si accorda con una politica di benessere sociale anche se il principale studioso delle finanze estensi, il Sitta, parla (20) di « mirabili relazioni » fra prìncipi, comune e popolazione. La presunta armonia deriva dal fatto che il Sitta conduce la sua indagine con la mentalità del trattatista per il quale in vertice ad una società è da rintracciare la perfezione dell'ordinamento finanziario, elemento anche per noi importantissimo, anzi fondamentale, ma che non è mai un puro elemento tecnico-amministrativo bensì deve avere, come indubbiamente ha nel caso degli Estensi (e implicitamente ed esplicitamente lo vediamo anche nello studio del Sitta), una sua connessione con la struttura politica e l'indirizzo sociale del governo. Tanto è vero questo che il Sitta nella Conclusione (p. 121) attribuisce giustamente la causa fondamentale della fine degli Estensi a un motivo politico-sociale, al sistema dell'appalto mediante il quale lo stato perde, per l'esosità e la crudeltà degli esattori, la benevolenza e la devozione dei sudditi. Sappiamo che i regolatori dell'amministrazione erano i fattori generali i quali erano scelti dal duca « per solito fra cittadini di nobile famiglia » e che gli altri funzionari erano eletti dai fattori e ciò dimostra una parentela di interessi tra Estensi e famiglie nobili o dominanti; la colta fatta sommando le spese comunali ordinarie e straordinarie e facendo la differenza fra il loro totale e le entrate rivela gli eccessi arbitrari delle tasse e la loro misura dipendente dal libito delle spese fatte dal duca; le spese private ducali non distinte da quelle pubbliche, quelle per abbellimenti, mantenimento di gentiluomini, damigelle di corte, riserve e diporti di caccia, i donativi alla nobiltà « per renderla più amica » (21) indicano una specifica finalità politico-propagandistica nell'erogazione di una parte delle finanze. E' evidente quindi come le finanze estensi abbiano anch'esse uno specifico orientamento a cui non sono estranei i lavori d'ampliamento e fortificazioni della città (che anzi il Sitta pone tra le cause principali della tendenza all'aumento delle spese pubbliche), la licenza concessa agli ebrei di prestare somme (la quale rendeva molto allo stato), il commercio esercitato anche dai duchi come privati (Alfonso I fa incetta di salumi, erbaggi, frutta, che vende poi al minuto con i prodotti delle sue terre) e numerose altre operazioni che rivestono un carattere politico a qualsiasi titolo siano fatte tale è il potere e tali gli interessi che i duchi hanno nelle loro terre. In un'altra operazione si vede il carattere di classe del governo, nella vendita di cariche ufficiali che i compratori potevano pagare« salati »perche avevano la mano libera per rifarsi sul popolo; i magistrati inoltre erano pagati con le sportule, cioè con contribuzioni proporzionate alle somme in contestazione. Da tutto ciò spicca chiara la contraddizione tra la politica finanziaria particolaristica che ha come conseguenza la privatizzazione dei profitti da parte di determinati gruppi e persone (ricordiamo ancora le prestazioni obbligatorie di lavoro) e la politica sociale estense; anzi, secondo noi, c'è da concludere che il sistema finanziario estense fu in contraddizione con i bisogni dei sudditi e si accompagnò a forme di notevole arretratezza giuridica (22).

NOTE:

1 Jacob Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze, Sansoni, 1899, II, 89

2 Giulio Bertoni, L'« Orlando Furioso » ecc., p. 8.

3 Giulio Bertoni, L'« Orlando Furioso » ecc., p. 208.

4 Uno studioso che ha osato affermare questo stesso (Giuseppe Agnelli, Ferrara e Pomposa, Bergamo, Istituto Italiano di Arti Grafiche,1906, III ed., pp.69-70) è stato accusato dalla critica positivistica di « giacobinismo ». Fino a tale punto di parzialità giungeva (e giunge ancora) certa critica che nei fatti non riusciva a trovare un legame e cert'altra che si dice « indipendente » pur difendendo le atrocità e le vessazioni degli Estensi.

5 Adolfo Venturi, L'arte ferrarese nel periodo di Ercole I d'Este, in « Atti e mem. d. Deput. d. st. patr. p. 1. prov. d. Romagna», vol. VI, p. 96, Bologna, 1888.

6 Jacob Burckhardt, Op. cit., I, 55.

7 Lettera al marito del 27 agosto 1496 pubblicata da Luzio-Renier, Il lusso di Isabella d'Este marchesa di Mantova, « La Nuova Antologia », 16 luglio 1896.

8 Giuseppe Pardi, La suppellettile dei palazzi estensi in Ferrara nel 1436, in «Atti e mem. d. Deput. Ferrar. d. st. patr.», vol. XIX, fasc.I, Ferrara, Tip. Sociale,1908.

9 A. L. Gandini, Saggio degli usi e delle costumanze della corte di Ferrara al tempo di Niccolò III, in « Atti e mem. d. r. Deput. d. st, p. 1.Romagna »,IX (1891), p. 143. Il Gandini fu pure illustratore pedestre di Tavola, cantina e cucina della corte di Ferrara nel Quattrocento, Modena, 1889 e Viaggi, cavalli, bardature ecc. degli Estensi, Bologna, 1892.

10 A un povero che aveva un debito con la Camera fu tolto, come egli stesso dice, uno povero lectexello dove posava suxo cum una brigata de fioljti (« Registro dei Mandati », 1488, dell'Archivio di Stato di Modena).

11 Jacob Burckhardt, Op. cit., I, 54.

12 Antonio Gramsci, II Risorgimento, Torino, Einaudi, 1949, p. 32.

13 Cammillo Laderchi, Statuti di Ferrara dell'anno 1288, Bologna, Regia Tipografia,1865.

14 Bernardino Zambotti, Op. cit., p. 8.

15 Bernardino Zambotti, Op. cit., p. 95.

16 Bernardino Zambotti, Op. cit., p. 100.

17 Michele Catalano, Op. cit., I, 106.

18 I documenti sono pubblicati da Adolfo Venturi nell'art. cit.

19 Michele Catalano, Op. cit., I, 108.

20 Pietro Sitta, Saggio sulle istituzioni finanziarie del Ducato Estense nei secoli XV e XVI, Ferrara, Tip. Sociale, 1891, estr. da « Atti e mem. d. Deput. ferrar, d. st. patr. », III (1891).

21 Pietro Sitta, Op. cit., p. 45.

22 Si legge negli Statuti: « Et siquis solvere non poterit, stet ligatus per unum diem ad catenamin platea Communis Ferrariae ».



Lo stemma estense

Ripercorrendo la trama del vivace dibattito critico originato dalla prima edizione dell'opera (Firenze, La Nuova Italia, 1953), Piromalli in questa “ Appendice ” alla seconda edizione mette a punto le proprie conclusioni riguardo a metodi e strumenti della critica ariostesca.    

La cultura a Ferrara al tempo di Ludovico Ariosto

di Antonio Piromalli


Appendice

alla seconda edizione (Roma, Bulzoni, 1975, pp. 189-206)

 

Lo studio riproposto oggi ai lettori è stato un tentativo di verificare i documenti della civiltà ferrarese dell'Umanesimo e del Rinascimento, studiati dai positivisti, nonché le indicazioni burckhardtiane che appartenevano a un gusto romantico borghese che aveva sforzato i toni del Rinascimento. Un intento fondamentale era quello di allargare l'area della «letteratura» e delle fonti della cultura dell'età dell'umanesimo ferrarese, al fine di delineare una società più complessiva di quella presentata dagli studiosi positivisti (che avevano studiato quasi esclusivamente una corte festosamente e idillicamente beata in una vita serena, in un accordo tra signore e sudditi, in un quadro un po' oleografico di armonia di classi e di cultura).
Nessuna grande opera di poesia o di letteratura era da noi presa in esame (il nome dell'Ariosto valeva come punto di riferimento), perché il metodo di studio tendeva ad approfondire i caratteri della società e a vedere i collegamenti di essa con la letteratura (la nostra polemica, quindi, era contro la mancanza di dialettica storica dei positivisti e contro la mancanza di raccordo con la realtà esistente negli studi di molti critici neoidealisti).
Non poteva essere deformante il vedere le situazioni da più lati piuttosto che da uno solo e, poiché non parlavamo di poesia del Cinquecento ma di problemi della vita e della cultura, ci sembrava che essi potessero essere inquadrati anche in una situazione di lotta di classi che obiettivamente scaturiva dalla lettura dei documenti offerti da tre ampie cronache ferraresi del Quattro e del Cinquecento, scritte da persone appartenenti all'area della corte o funzionari della corte. Dal Diario ferrarese di un anonimo, dalle cronache di Bernardino Zambotti e di Ugo Caleffini emerge chiaramente che interessi di grande rilievo agiscono nel quadro della vita e della lotta delle classi in Ferrara e che, ad esempio, i Trotti ed altre famiglie dominanti governavano generando odio e malversazioni. Collegando tali documenti (da cui emerge l'impopolarità dei malvasi Trotti, dei traditori Trotti: così nel Diario del Caleffini) si vedono venire alla luce la prepotenza degli Estensi e delle grandi famiglie borghesi e aristocratiche, il carattere politico del mecenatismo estense, ma politico nel senso classista come classista era l'amministrazione della giustizia. Anche il Bertoni e il Catalano avevano fatto qualche accenno a tali strutture, ma il nostro studio sosteneva come tesi centrale che la vita e la cultura del Rinascimento ferrarese non possono prescindere dalla realtà economica e sociale.
In tale tesi non era affermato che il fattore economico e quello sociale fossero i soli elementi dello sviluppo storico, il quale è sviluppo dialettico di tutte le facoltà e di tutta la realtà naturale, e, se la nostra indagine prendeva vita in un quadro sociale violento e ricco di contrasti (che non guardavamo romanticamente o decadentisticamente), ciò nasceva dall’interpretazione sociale che obiettivamente si doveva dare a quei documenti. Nella lettura e nell'interpretazione segnalavamo le discrepanze di toni e di colori, perché lo studio sociale non ci orientava verso la giustificazione del reale, quale si fosse, sicché se abbiamo condannato alcuni aspetti della civiltà ferrarese nel Rinascimento, la nostra condanna non è nata da una elucubrazione ma da una constatazione storica, dalla necessità di non occultare ciò che era palese nei letterati anticortigiani e antiestensi.
Qualificare aspetti della cultura non significava negare la poesia, fosse dell'Ariosto, fosse degli umanisti, soltanto perché il contesto nel quale quella poesia nasceva era il contesto mecenatistico e cortigiano. Ad esempio, Giustino Fortunato, il quale guardava la realtà viva e palpitante del suo tempo, ma non giustificava tutta la realtà, poteva scrivere: « E' doloroso doverlo ripetere, ma bisogna ripeterlo alto senza riguardi e senza rispetto: nessun governo, dal 1860 in poi, ha avuto mai piena coscienza dei doveri, verso l'Italia meridionale, dello “Stato educatore”, perché nessun governo si è messo mai, nonché a studiare, a conoscere con affetto, con sollecitudine, le condizioni politiche di quelle popolazioni: nessuno, e meno di tutti i ministri meridionali». Qualcuno dirà che vogliamo giudicare negativamente gli Estensi servendoci di Giustino Fortunato. Ma la nostra intenzione non era quella di giudicare negativamente gli Estensi (1), i cui grandi meriti abbiamo messo spesso in rilievo (2).
Noi ritenevamo che uno studio storico-sociologico potesse stimolare a un nuovo esame della cultura in cui si formò e operò l'Ariosto (3) Giustamente il Caretti definiva (4) storico-letterario l'ambito dell'indagine sulla cultura ferrarese e lo stesso Caretti scriveva che quei filoni di letteratura anticortigiani e antiestensi da noi illustrati, erano stati assai poco studiati fino ad allora e che il nostro quadro della cultura ferrarese, quello « nel quale si formò e prese volo la poesia ariostesca », appariva « più mosso e vario, ricco e contraddittorio, di quello fornitoci dagli studiosi precedenti: eruditi positivistici o celebratori romantici ». Scrivevamo noi che in Ferrara negli ultimi due decenni del Quattrocento circolò sotterranea, uscendo talvolta alla luce, la denuncia di crimini, di oppressioni, di fiscalismi commessi da funzionari estensi. Talvolta la denuncia sorgeva da anonimi che raccoglievano i fatti accaduti e ne trovavano i legami politici; altri affiggevano i loro « bischizi » sulle colonne dei principali palazzi di città. Per il Caretti si tratta di aspetti « di una particolare sottocultura ferrarese » e tali sono, dal punto di vista dell'arte, anche per noi. Col Caretti siamo d'accordo là dove egli afferma che nel « reperire le macchie » della società ferrarese di quegli anni ci è capitato talvolta di restringere la guardatura storica solo ad esse e di averle trasformate in idolo polemico: ma questo era l'aspetto nuovo del nostro studio. Lo stesso Caretti osservava che nel nostro lavoro erano adoperati « gli strumenti dell'indagine marxista con discrezione nel punto di difficile sutura tra l'ambiente e la poesia, tra la società e l'arte ».
In realtà la nostra ricerca era di tipo gramsciano nello studio del mecenatismo degli Estensi, i quali avevano condizionato l'esercizio della funzione intellettuale al loro ambito politico, impedendo l'elaborazione di consistenti gruppi di autonoma attività culturale borghese. Il condizionamento s'inquadrava nella necessità di creare una classe dirigente conforme ai bisogni del ducato e alla sua struttura e ciò intuiva molto bene il Ramat (5) in una recensione ricca di spunti vivaci e di acute notazioni. Per il Ramat, la corte estense fu un fenomeno rinascimentale positivo, in quanto crogiuolo delle forme e degli spiriti rinascimentali e in quanto forgiò le norme della civiltà signorile, condusse a compimento il processo borghese attraverso una selezione aristocratica; ma presentò anche un aspetto negativo, perché cristallizzò quelle forme, irrigidì le strutture, fece il vuoto intorno all'aristocrazia che, separata dal popolo, perdette ogni possibilità di rinnovamento. Il Ramat osservava anche che in uno studio sul Rinascimento trovava giusto posto la trattazione delle classi dirigenti italiane e borghesi e dei loro limiti nell'intendere la lezione delle cose europee.
Con molta attenzione venivano distinti problemi, ambienti, figure del nostro argomento da Bruno Maier (6), il quale metteva in rilievo la novità dell'impostazione nei suoi vari aspetti e metteva in avviso sulla « soverchia modernità dell'espressione » e sul pericolo di modificare il tradizionale giudizio intorno a Isabella d'Este (il giudizio tradizionale veniva da noi modificato, tuttavia, solo per le circostanze e i fatti da noi ricordati a proposito della figlia di Ercole I e, necessariamente, nel contesto storico-sociale: del resto più tardi, il giudizio tradizionale è stato corretto anche da uno studioso quale Carlo Dionisotti). Ma il Maier avvertiva anche un altro pericolo (del quale noi stessi siamo oggi consapevoli), quello di « ravvisare nel dominio estense una dittatura accentratrice di tipo moderno » e, di conseguenza, di « porre in maniera parimenti moderna il problema della relazione tra la cultura ed il ducato, fra la letteratura e la corte ». Il pericolo, del resto, era connaturato al tipo di ricerca gramsciano e alle prime prove che in quegli anni venivano compiute in Italia.
Al problema della direzione culturale nella società ferrarese restava estraneo anche un fine e aperto critico quale Claudio Varese (7) mentre profondamente ostile e intollerante si manifestava uno studioso dell'Ariosto, Giorgio De Blasi (8), tenacemente avverso sia alla critica stilistica che alla critica sociologica (ma anche severo censore sia del Momigliano che del Binni) e sostenitore dell'impegno etico-psicologico dell'Ariosto, al di fuori di qualsiasi prospettiva di crisi della razionalità e della felicità rinascimentale. Nello studio storico-sociale sono per De Blasi soltanto i residui del positivismo e del sociologismo tainiano; alla visione di un Rinascimento in cui esistono diverse forme di cultura come espressioni di diversi ambienti e di diverse strutture il De Blasi oppone un Rinascimento immune dalla coscienza della condizione sociale (« C'erano nel Rinascimento in realtà rapporti di molta familiarità tra suddito e signore », sicché non si può ammettere che si trasportino « ad una sfera politica lamenti individuali (magari giustificatissimi! Non voglio dire che i ricchi non fossero tirchi magari con i loro artisti) »; il che significava guardare con idee preconcette e senza badare al contesto storico) (9). Il De Blasi si arroccava nella sublimità spirituale, fuggendo dal tempo e dallo spazio, per sostenere che nel Rinascimento ebbe valore la « persona », la « qualità della coscienza individuale dell'uomo », « la coscienza della personalità umana individuale » che non ci è mai capitato di negare: forse la « persona » non valeva quando Ercole I condannava « al taglio della testa o invece allo sborso di mille ducati per ragion di satire composte contro il duca e il nuovo giudice de' Savi » (10)
I limiti interpretativi del nostro problema sono stati chiaramente intesi da Andrea Ciotti (11), il quale ha anche avanzato delle riserve sul freno dell'arte e sulla tematica letteraria che mitigano e alterano in un mondo fantastico la realtà della vita quale è stata da noi descritta a proposito del Pistoia. Naturalmente in un saggio puramente letterario (12) il Pistoia non potrebbe avere quel rilievo realistico-biografico che assume in un quadro sociale.
Nel ricordare i singoli giudizi forniti dai critici intorno al problema della cultura ferrarese al tempo dell'Ariosto, abbiamo cercato di caratterizzare le singole posizioni e il rapporto dei critici con la nostra prospettiva, la quale mirava a collocare in un quadro più vasto la poesia e il mondo di Ludovico Ariosto. Ciò è avvenuto in un altro nostro studio (13), in cui il naturalismo ariostesco è visto come importante elemento della base conoscitiva e intellettuale del Rinascimento italiano e ferrarese, oltre che come sentimento estetico di un'età pervenuta alla sua maturità completa, alla sua pienezza di vita. Per immagini artistiche l'Ariosto ha espresso determinati contenuti di bellezza e di vita, ha sviluppato in una più ampia armonia il ritmo musicale poetico, ha creato un più estetico senso delle proporzioni e delle strutture, ha approfondito il rapporto estetico nei confronti della realtà, comprendendo nel concetto del bello i suoi opposti, il deforme e il ripugnante, trasmutandoli nella totale maturità del Rinascimento.
Se si accoglie il principio che la sua poesia riflette la vita mediante rappresentazioni, immagini non solo estetiche ma anche logiche, intellettuali, la tradizionale indifferenza ariostesca diventa interesse verso i problemi umani, poiché il poema esprime totalmente un'epoca nelle sue caratteristiche, nelle aspirazioni cavalleresche e popolari con il suo realismo in cui si trovano fusi sentimenti e ragione. Il padre Nicolò trasmette a Ludovico l'esperienza dell'utilitarismo (acremente vituperata nei « bischizi » popolari contro Nicolò in quanto profitto personale), la società borghese del suo tempo gli ravviva il senso critico e storico allargandogli il raggio dell'esperienza (una morale più fresca, l'attitudine ad osservare e a meditare, una intuizione della vita scaturente dai nuovi rapporti sociali), il popolo ferreamente disciplinato dai signori gli fornisce i canti di rivolta o l'evasione con cui si crea un particolarmente concreto mondo fiabesco. Il naturalismo dell'Ariosto consiste nell'avere abbracciato la complessa vita del tempo suo, riflettendo nell'arte l'idea che egli aveva di quella realtà, scoprendo i nessi più importanti; dal classicismo sereno al platonismo del Bembo, dal realismo comico e drammatico popolare al narrativo boiardesco. Il poeta attua una sintesi di tutti gli elementi della sua esperienza con una tranquillità artistica che ha la precisione dell'operare scientifico, in cui fiorisce il gusto di uno stile individuale e di una scrittura altissima e si può osservare la scelta estetica operata nei limiti di una civiltà in ascesa. Alla formazione di quel gusto concorrono esperienze, incontri, ambiente, civiltà ferrarese, che contribuiscono a determinare una nuova visione umana della bellezza al di là di ogni preoccupazione mistica o religiosa. In veste di filosofo della vita di tutti i giorni il poeta ci appare col Momigliano, nella lirica latina, come osservatore della vita e come chi traduce in arte le sue riflessioni morali.
Il tentativo di creare una misura espressiva più personale e contenente un più ampio raggio di esperienze artistiche e umane ha pure nei versi in volgare una base realistica (specialmente nei Capitoli), mentre nelle Satire ci si muove in un tono anche popolare, nel quale si avverte un'elevata sapienza stilistica che tende al ritmo prosastico. Il mondo popolare vive nella forma sentenziosa delle satire in una terza rima a cui il contatto con i modi pedestri della poesia anonima ha conferito una plastica concretezza. Soprattutto nelle Satire la condizione poetica dell'opera si attua nell'esperienza che l'Ariosto ha dell'uomo e il mondo del Furioso ha molte radici in questo delle Satire. Gli esperimenti teatrali, infine, ci riconducono al tono della comicità di cui una ricca corrente si incontra nell'opera maggiore dove l'arte trova la sua unità organica di stile tra forma e contenuto.
Nel capolavoro l'Ariosto coglie le punte più alte del processo culturale e linguistico del tempo suo, sicché lo studio delle varianti diventa studio della poesia e del gusto del Rinascimento e a chi consideri lo spazio di tempo intercorrente tra la scrittura della prima edizione e la stampa dell'ultima e il decadere dell'arte di lì a pochi lustri da una misura che si suol chiamare classica al rigorismo e alla precettistica aristotelica, non può sfuggire la grande importanza che l'impegno dell'Ariosto nel correggere il poema ha per noi. Diviene la principale prova documentaria di un processo di trasformazione che possiamo seguire anche nel suo interiore divenire, oltre che nelle espressioni esterne che lo contrassegnano. L'Ariosto e la corte, l'Ariosto e il pubblico si trovano continuamente in una relazione in cui, cioè, il poeta non elabora soltanto un individuale linguaggio espressivo, né scrive un'opera esteticamente arbitraria; né, del resto, il pubblico è solo il ricettore o l'ascoltatore, ma artista e pubblico si trovano a essere agenti di uno sviluppo dialettico e comune, di una trasformazione di cultura e di civiltà, e il nuovo linguaggio è il segno di una nuova visione artistica in cui l'approfondimento del reale è continuo e il fine ultimo è quel testo poetico per il quale l'Ariosto, come è stato detto felicemente dal Migliorini, trasformando il dialetto in lingua, da poeta ferrarese diviene poeta nazionale. Al naturalismo tutto eleganza e vitalità l'Ariosto non giunge di primo colpo, ma in successive fasi, documentate dalle edizioni a stampa del poema e dal sotterraneo lavoro di lima e di creazione.
Nella linea di cultura letteraria dei predecessori vi era stata una adesione piuttosto elementare alla bellezza della natura (quello che il Contini chiama «invito a partecipare ai suoi sentimenti», a proposito del Boiardo) o, come nel Poliziano, un allineamento di termini sensoriali. L'Ariosto comprende che deve stare in guardia dal riflettere con immediatezza e passività i dati offertigli dalla realtà, le correzioni che egli apporta tendono alla soppressione dei particolari fisici o geografici, delle forme dialettali, dei latinismi, delle espressioni dotte, alla cancellazione dell'evidenza boiardesca per cogliere in una diversa visione, più semplice e più concreta, la multiforme realtà. Nell'assenza di sapore letterario e di colore paesano, di verniciatura classicistica o popolaresca si trova il raggiunto equilibrio con il più raffinato gusto rinascimentale.
Chi esca dalla lettura dei grandi diari e delle cronache ferraresi del Quattrocento (Anonimo, Zambotti, Caleffini, etc.) o dai carteggi estensi o gonzagheschi e passi dal volgare regionale alla lingua ariostesca del 1532, si accorge di passare in un mondo completamente diverso (non solo per l'evidenza artistica e per la poesia) in cui non esiste più l'impronta grezza e curialesca, che è stata oltrepassata da una cernita operata secondo una tendenza costante che è l'accostamento al toscano letterario. Il « volgar uso tetro » dei poeti cortigiani (Serafino, Tebaldeo etc.) appare lontano, superato dalle idealità normative bembesche, e anche il Boiardo esprime un'epoca tramontata; il raffinamento costante del Furioso, il perfezionamento della realtà artistica in esso contenuta fanno trascendere al poeta la corte estense e lo creano poeta d'Italia. L'esame delle varianti della lingua documenta il travaglio del Rinascimento italiano che tocca le sue cime con lunga elaborazione (ripudio del realismo crudo quattrocentesco e boiardesco, del naturalismo più fisico, dei latinismi, degli ibridi locali; ma anche espressione della vita come fonte di gioia, di bellezza e di armonia, di equilibrio e di progresso di gusto, dignità della persona nell'amore, nella morte, sentimento razionale e non mistico, etc.).
La « religione della Bellezza » ariostesca è intellettuale e artistica aspirazione a un mondo migliore, di « gentilezza e cortesia », in cui l'uomo sia padrone del proprio agire e della propria esistenza. La personalità ha bisogno, per manifestarsi, dell'intelletto, e l’Ariosto adopera spesso l'ironia come mezzo tecnico per mettersi in rapporto con la realtà. L'ironia è l'elemento caratteristico della tecnica letteraria ariostesca, e le metafore del poema, che non sono pura invenzione ma sono costituite da immaginazione e pensiero, dagli elementi dell'esperienza, da sensibilità e intelletto, rappresentano la rivelazione della cultura e dell'intelletto, la manifestazione dei legami dell'esperienza: ammesso, cioè, il carattere anche logico della metafora, e della tecnica letteraria, l'opera d'arte rappresenta anche una verità, una rivelazione gnoseologica, perché i valori del pensiero hanno la loro parte. Il Furioso contiene più numerosi riflessi di pensiero tramutatisi in arte, nei confronti dell'Innamorato, esprime un mondo morale nuovo per mezzo di una tecnica nuova, l'ironia, che il Boiardo non poteva adoperare perché egli ancora credeva nel mondo feudale. L'Ariosto è oltre il petrarchismo e il boiardismo, la sua originalità di poeta non si può scindere dalla storia, dalla realtà, perché ripetendo vecchi schemi mentali e vecchie tecniche letterarie si ripetono vecchi sentimenti. L'ironia ha valore storicizzante, esprime un modo di essere nel reale degli aspetti della vita, in essa si nota l'avvicendamento del gusto e degli interessi immaginativi. In tal modo l'Ariosto acquista il primo posto all'inizio di un nuovo processo ideativo, e lo acquista, ripetiamo, come poeta appunto perché ha espresso in moduli artistici i nuovi interessi, oltre il semplice progresso del genere letterario cavalleresco.
Siamo in un momento diverso dall'età di Boiardo e l'ironia sorge nell'Ariosto come espressione di una mutata realtà di cui i documenti e i diari ricordati rendono bene ragione sul piano storico: c'è una coscienza superata, il feudalesimo e il Medioevo tendono ad allontanarsi, Orlando che conserva gli antichi ideali non vede la realtà, ma la semenza cavalleresca non vegeta più nella nuova società, e il poeta rinascimentale brucia nell'eroe, con l'ironia, il platonismo astratto del Medioevo. Eroi ed eroine sono prosaicizzati, le necessità umane sono scoperte e satireggiate nei protagonisti (Astolfo che a sera deve scendere dall'Ippogrifo e cercarsi un buon albergo, Angelica che esce dall'arcione e cade riversa), le istituzioni sono ricoperte di ironia (miracoli, battesimo, religione, etc.). L'ironia dissolve le antiche credenze e le superstizioni, è rivelatrice della modernità dell'Ariosto antimistico e antiascetico (si veda la satira contro gli eremiti, contro le discordie dei religiosi, contro le superstizioni del volgo); del mutamento di cultura avvenuto alla fine del Quattrocento l'Ariosto coglie la perfetta maturazione generata in una concezione filosofico-morale che si è allontanata dal Medioevo. In una nuova visione della bellezza si ampliano anche i verdi sfondi dei colli, dei fiumi, dei paesi, degli animali e prende posto in questa prospettiva la figura umana: la fantasia di uomo del Rinascimento consente all'Ariosto di cogliere i diversi aspetti della realtà, di scoprirne le contraddizioni. Egli porta alla luce la civiltà aristocratica e borghese che ha in Ferrara fremiti di vita e alla fine del Quattrocento si esprime nei palazzi di via Ripagrande e Terranuova, nelle imprese mercantili bancarie; è un momento della vita rinascimentale che sorge in Ferrara su queste basi e non su altre; non in forma episodica o per incanto, ma per necessità. Bisogna collocare l'Ariosto nelle condizioni rinascimentali per avere la misura obiettiva del suo valore, e ogni tentativo di comprenderlo a priori in un disegno di prestabilita armonia o tendenza al superamento della realtà viene ad urtare contro l'evidenza di un Ariosto interprete di una civiltà complessiva.
Per questo abbiamo studiato in primo luogo i tempi e l'ambiente in cui visse l'Ariosto e ci siamo soffermati adesso a sottolineare l'esperienza ariostesca, la precisione intellettuale e spirituale e fantastica del poeta, il naturalismo della sua poesia, che non si vanifica nello sfumato e nel nebuloso, ma si condensa nella visione chiara e nell'ironia, il mezzo tecnico del rilievo logico-fantastico della realtà, il richiamo alla situazione oggettiva. Gli oggetti sono estratti dal vago e dall'indeterminato, l'uomo non è un pretesto di rappresentazione e si stringono i legami col mondo della natura. La straordinaria vita degli animali è osservata nei diversi aspetti nei numerosi paragoni del poeta (caccia alle rane, caccia con i cani, etc.), le similitudini e le metafore nel poema sono innumerevoli e sono prova del naturalizzamento del mondo umano. L'osservazione dei fenomeni della natura è un fatto non solo estetico ma anche conoscitivo, e nelle immagini e similitudini è sempre l'ombra della fatica e della vita degli uomini. I fenomeni del torrente ingrossato per le nevi o per la pioggia e precipitante fra i campi e i raccolti, del cader delle foglie in autunno, delle acque che prorompono da una diga, dell'accendersi dei razzi, della rondine che si precipita fra le api, del fulmine caduto in una casa, della pietra superiore della mola che macina il grano, dei mantici che soffiano a vicenda sulla fornace, dei fiori che resuscitano sotto la pioggia, etc., hanno nel poema un incanto artistico ma nascono da una base razionale; non sono pretesti descrittivi ma l'ispirazione è legata alla conoscenza della natura fisica, qui il sorriso della scienza si rivela illuminante anche per quanto riguarda le situazioni artistiche, per l'evidenza del fenomeno che presenta, per la precisione che aggiunge alla fantasia ariostesca.
La scienza e l'osservazione sono gli elementi naturalizzanti dell'arte del poeta, che si dispiega con una scientifica coerenza di invenzioni e di disegno. L'uccello invischiato, gli apparecchiamenti dell'uccellatore nel campo per preparare le reti, la campagna incolta scoperta ai raggi del sole, la contadina che trae il bozzolo del baco da seta da mettere nell'acqua bollente per poterlo filare, la grandine che cade sui tetti, che sono motivi tradotti in immagine, conservano il fondo di realtà da cui derivano e rendono naturali la dimensione dell'uomo e le sue azioni, mettono in relazione i fatti e i personaggi con la realtà. Le immagini, cioè, nascono sul terreno storico di una determinata esperienza e cultura, di una determinata visuale che è, nell'Ariosto, il rinascimentale e concreto modo di vedere artisticamente la realtà secondo uno stampo naturalistico e scientifico. Le similitudini calano il mondo ariostesco nella realtà che è, come ha scritto il Momigliano, la stoffa da cui sono ritagliati i sogni. In questo continuo richiamo alla realtà rientra anche la funzione del paesaggio come suggestivo primo piano legato alla memoria di aspetti della pianura del Po delle sconfinate lande e delle valli, di grandi spazi e di gravi fatiche, paesaggio dominato dalle acque e dalla pianura in cui si muovono i personaggi della fantasia, privo di qualsiasi accento idillico o lirico. La « secca arena » della similitudine della cornacchia (IV, 43), il « gran spazio di mare » scorto da Rinaldo (IV, 51), la « lama - che fa due parti di questa pianura » (IV, 78), la « palude, ch'era scura e folta - di verdi canne » (XV, 52), il sentiero che « giace tra l'alto fiume e la palude » nella riva sabbiosa (XV, 49) e innumerevoli altri aspetti di questo essenziale paesaggio ci richiamano a quella realtà naturalistica ferrarese che il poeta portava nella mente e che trasfigurava con la fantasia.
Nel Furioso l'Ariosto ha interpretato esteticamente la realtà creando una nuova forma artistica: egli ha superato la forma tradizionale (ce lo confermano i linguisti e i critici) perché ha superato anche la visione idillica consueta alla lirica e ha creato una nuova tecnica e un nuovo stile. Il termine artistico della nuova tecnica è il naturalismo nei limiti consentiti dalla cultura e dalla società, attraverso soggetti ancora appartenenti alla tradizione medievale e cristiana, ma in una vita ormai piena e positiva, energica e non frantumata. Più che la scienza c'è spesso il vagheggiamento scientifico nell'Ariosto, ma la felicità umana diventa il mito poetico della nuova cultura da cui non può essere scartato ormai il valore del concreto; in luogo del motivo dell'espiazione-riscatto subentrano i temi del nuovo rapporto etico-conoscitivo, quelli di realtà-sogno, esperienza-bellezza che la fantasia trasporta nel mondo dell'arte. L'umanizzazione — Orlando che riacquista la saggezza — è il mito riassuntivo di tutta la civiltà rinascimentale, che celebra la vita e gli affetti umani, e dentro l'ottava della verginella che è simile alla rosa c'è il pieno sentimento della bellezza che ha oltrepassato il platonismo del Quattrocento e non è ancora caduto sotto il rigore precettistico del secondo Cinquecento. La bellezza non è forma soltanto, ma soprattutto sostanza della vita nella descrizione di Ruggero nel palazzo d'Alcina (VII), è un aspetto essenziale del grande quadro della società del Rinascimento, e il poeta ne diffonde l'ammirazione e il rispetto, quando descrive il dolore che appare sul « bel viso » di Olimpia (XI, 65), o la gioia di Isabella all'improvvisa vista di Zerbino (XXIII, 67), o il viso di Bradamante incorniciato dai capelli d'oro (XXXII, 80). Non si tratta di semplice petrarchismo amoroso, ma di energia artistica nel rappresentare la vita degli uomini sia nell'amore che nelle armi che nelle passioni.
L'Ariosto stipendiato di Ercole I, di Ippolito, di Alfonso I, ambasciatore e governatore a contatto con una realtà che nello studio precedente abbiamo dimostrato quanto dura fosse, a contatto con la corte, le dame, i soldati, il pontefice, i signori, il popolo garfagnino, poeta e organizzatore del teatro di corte, diede alla sua opera d'arte un rigore unitario, che derivava dalla sintesi estetica delle esperienze compiute, e l'impronta di una personalità veramente presente nel tempo in cui visse. Il Bacchelli ha scritto che la mente politica dell'Ariosto si informava, più che dalle trattazioni degli umanisti, dalla pratica e dal giure (14), e certamente nessun campo della cultura rimase estraneo al cosiddetto « grande distratto ». Per comprendere l'artista, gli elementi intellettuali e quelli poetici non si possono scindere gli uni dagli altri, perché entrambi hanno una genesi storica e una razionalità come termine intermedio del loro rapporto: per mezzo di quel rapporto l'Ariosto si fondeva con quella società rinascimentale che portava con sé gli elementi dell'uomo completo, e l'umanizzazione di Orlando ritornato savio è come il simbolo della vita e della cultura cinquecentesca, punto elevatissimo della poesia dell'Ariosto, ma non il solo.
La nostra interpretazione dell'arte e della poesia dell'Ariosto ha un supporto storico nella nostra indagine sulla cultura a Ferrara nel tempo del poeta e un sostegno teorico negli studi estetici post-crociani tendenti a superare la visione idealistica (si può notare una certa vicinanza alle ricerche di Galvano Della Volpe sull'estetica e sul gusto). La prospettiva è per Mario Scotti quella di un « rinnovato storicismo integrale » (15) (« Non si vuole cogliere e descrivere un tono di poesia, né motivi psicologici, come in un estetismo o impressionismo critico, che ormai va tramontando: l'impegno è più ambizioso, specie trattandosi di un poeta come l'Ariosto, da una lunga tradizione critica presentato assorto in un mondo remoto da ogni realtà e perduto in un gusto di favolose avventure ») e lo stesso Scotti ha sottolineato il tentativo di superare la tendenza a racchiudere il Furioso in una definizione o in una descrittiva, che consideri il solo momento della poesia realizzata come assoluto valore estetico. L'interpretazione organica e il filo conduttore di un Ariosto intellettualmente vigilante e creatore di nuove visioni e nuovi fantasmi sono accolti anche da Ermanno Circeo (16), da Enzo Ronconi (17) il quale ha rilevato che nello studio è rivendicata la vitalità dei personaggi, non modellati secondo schemi psicologici letterari, ma colti nel vario atteggiarsi della loro umanità, da Rodolfo Macchioni Jodi (18) che ha osservato come « la poesia è vista nella sua accezione più integralmente umana, come traduzione di un cumulo di esperienze di vita e di cultura ». Anche il Ciotti (19) si soffermava sul nostro tentativo di trovare la misura di un metodo critico capace di offrire gli strumenti idonei a valutare il mondo del poeta del Furioso superando il facile giuoco di una formula (20).
La nostra interpretazione, tuttavia, legata a una valutazione totale dei caratteri del Rinascimento, incontrava oppositori i quali accusavano di determinismo lo studio storico-sociale; qualcuno deformava completamente la nostra tesi e parlava di una nostra interpretazione secondo la quale era intesa « la personalità dell'Ariosto e la sua produzione poetica quale riflesso immediato dei rapporti economico-sociali di classe tra la feudale corte estense, apparentemente munifica, ma fiscale e tirannica, e i ceti popolari oppressi e vogliosi di emancipazione » (mentre avevamo sempre detto che l'arte ariostesca non è mai riflesso immediato del mondo storico, e avevamo accusato il Bertoni di avere messo in rapporto immediato realtà e arte; la trasfigurazione artistica, la motivazione estetica erano i temi principali —uniti al possesso della tecnica da parte dell'Ariosto— del nostro secondo studio). Qualche altro critico notava nel primo studio una visione «moralistico-classista», soprattutto nei riguardi della società ferrarese (21), ma nondimeno le discussioni e le polemiche aprivano nuove prospettive e, sul piano storico-letterario, una nuova giustificazione storica dell'ispirazione ariostesca. Dopo i nostri studi cadevano completamente i motivi dell'indifferenza del poeta per ogni contenuto umano (a cui era unita la aneddotica intorno alle distrazioni dell'Ariosto che, invece, fu uomo preciso ed esatto nell'adempimento degli uffici, nella cura delle sue terre e dei contadini, nella scrittura del poema e in ogni minima manifestazione della sua personalità) e Lanfranco Caretti distruggeva (22) l'Ariosto « sedentario e contemplativo » oltre che « sornione, scettico e magari epicureo », perché da esso derivava una interpretazione della sua poesia « in chiave astrattamente metafisica ». Già il Bacchelli, come abbiamo indicato, aveva accentuato la posizione « politica » dell'Ariosto nello stato estense e aveva, in una conferenza ferrarese del 1929, creato il primo germe vivo di una interpretazione moderna, antiromantica, della personalità e dell'opera dell'Ariosto. Nei volumi del 1931 il Bacchelli dirà: «E allora la saggezza, la gnomica, la moralità del poema, così sature come sono di esperienza consumata, di machiavellesca verità effettuale, di riserbo e di segreto, di esperienze reali fatte capire senza dirle, risultano prodotte tanto dall'esperienza delle cose, quanto dall'intima difficoltà creativa, spiegando umanamente quel ch'è esteticamente sicuro: come esse concorrano potentemente e intimamente alla sovrana ma trascendentale unità del poema, alla materia del quale non temono di contrastare con aperto sarcasmo e con ironica irrisione » (pag. 557). Queste osservazioni del Bacchelli sono importanti, (23) ma il Caretti ristabiliva con maggiore organicità il vero ritratto interiore dell'Ariosto e la pienezza dello spirito rinascimentale del Furioso, in cui sono costanti alcuni motivi, da noi posti come centrali nei nostri studi: «il libero e spregiudicato giuoco degli affetti; la schietta affermazione della vita; la piena rivalutazione dell'intelletto e della libertà dell'uomo; la soppressione, ormai neppure più polemica, d'ogni residuo di mentalità metafisica, formalistica e dogmatica; la riduzione nell'ordine della natura della magia e dell'astrologia; l'armonia intesa come legge dell'universo; l'amore sentito come principio conservatore dell'esistenza» (24).
I nostri studi ariosteschi (25) intendevano, in sostanza, allargare il campo e i metodi di indagine e, decisamente impostati contro la formula crociana e le sue varianti, intendevano interpretare in senso totale il rapporto tra l'Ariosto e il Rinascimento (età storica, società etc.). Gli studi di poetica, di lingua, di stile, di tecnica letteraria costituivano per noi i metodi e gli strumenti fondamentali per un approfondimento della poesia dell'Ariosto (26) ma non gli unici.

 

NOTE

 

1 L. Chiappini (Gli Estensi, Milano 1967), vede il nostro studio come una indagine sulle «caratteristiche della signoria estense per ciò che concerne le relazioni fra signori e popolo, la configurazione delle classi sociali a Ferrara con particolare riguardo alla nuova borghesia, la cultura intesa come strumento di governo», una indagine che « si sofferma a considerare la letteratura popolare e antiestense nelle sue varie manifestazioni » (pp. 539-540).

2 Soprattutto per quanto riguarda il teatro.Le nostre critiche si appuntavano contro il modo in cui gli Estensi avevano organizzato la cultura e non contro le grandi scoperte o le grandi opere, come sembra ritenere F. Montanari, in « Studium », novembre 1953, pp. 718-719.

3 Ciò è stato bene messo in rilievo da R. Maura, « La Rassegna d. lett. it. », luglio 1953.

4 L. Caretti, Critica e filologia, in « Il nuovo corriere », 30 giugno 1953.

5 R. Ramat, Rinascimento ferrarese, in «Mondo operaio», 19 settembre 1953; « L'ora », 26 settembre 1953; « Il lavoro nuovo », 2 ottobre 1953. Sul carattere sociologico del nostro lavoro (che senza timore di apparire sociologico mirava, invece, a una più vasta storicizzazione) si veda G. Petronio, Reazione e progresso nella cultura rinascimentale, in «Avanti! » (Milano), 15 agosto 1953 e Tutto l'Ariosto, in « Paese sera », 29 giugno 1955.

6 B. Maier, « La Rassegna d. lett. it. », ottobre-dicembre 1953, pp. 481-487.

7 C. Varese, «Il giornale» (Napoli), 22 aprile 1954.

8 G. De Blasi, « Giorn. st. d. lett. it. », 1954, fasc. 395, pp. 439-441.

9 Per maggiore obiettività si veda ciò che scrive E. Garin: « E se è vero che spesso quei signori trionfanti protessero i letterati, è ancor vero che ne fecero dei cortigiani, in cui un pensiero tutto permeato di politicità non è più neppur concepibile (...). All'ideale della res publica come collaborazione, come vera società, anche se in effetti ristretta società, sostituisce il Cesare che allontana tutti dalla vera vita politica, trasformando la cultura, da espressione, strumento e programma di una classe alla ricchezza e al potere, in un elegante ornamento di corte, o in una disperata fuga dal mondo » (L'umanesimo italiano, Bari 1952, p. 278).

10 A. Frizzi, Storia di Ferrara, V, Ferrara,1848, II ed., pp.176-177.

11 A. Ciotti, «Convivium» novembre-dicembre1954, pp.727-732. Ricordiamo anche le paginedi T. Ascari, Studi ariosteschi nell'ultimo decennio (1944-54), in Atti e mem. d. Acc. d. Sc. lett. e art. d. Modena, S. V, vol. XIII, 1955, nonché una nota di L. Russo in un suo corso universitario, L. Ariosto: le opere minori, Anno accademico1954-55, Pisa, Libreria Goliardica,1955, p. 5.

12 Così è avvenuto, infatti, in un nostro successivo studio. Si veda: A. Piromalli, Antonio Cammelli, in «Convivium», 1961, pp. 531-554 e poi in Dal Quattrocento al Novecento, Firenze 1964, pp. 11-32.

13 A. Piromalli, Motivi e forme della poesia di Ludovico Ariosto, Messina-Firenze 1954.

14 R. Bacchelli, La congiura di don Giulio d'Este, Milano 1931, II, p. 233.

15 M.Scotti, « L'Italia che scrive », 1 febbraio 1955.

16 E. Circeo, « Commenti », Pescara, luglio 1955.

17 E. Ronconi, «Il ponte», dicembre 1955, pp. 2117 - 2121.

18 R. Macchioni Jodi, « La nuova Antologia », maggio 1956.

19A. Ciotti, «Convivium», gennaio-febbraio 1956, pp. 93-96.

20 Anche G. Trombatore («L'Unità», 20 gennaio 1955) indicava il contrasto con l'indirizzo della critica crociana, non del tutto rigettata (« Ma il pregio di questo lavoro consiste anche nel non rinnegare del tutto quella esperienza, e anzi nell'accoglierla e nell'assimilarla in quel che essa ha di più valido»). Si veda pure, a proposito della storia della critica contenuta nel nostro studio, ciò che ha scritto L. Russo, « Belfagor », 31 gennaio 1955.

21 G. Getto, Letteratura e critica nel tempo, Milano 1954, p. 232.

22 L.Caretti, Introduzione all'Ariosto nell'ed. L'« OrlandoFurioso »; Opere minori, voll. XIX e XX della «Letteratura italiana - Storia e testi », a cura di L. Caretti e C. Segre, Milano-Napoli 1954 (poi in Filologia e critica, Milano-Napoli 1955).

23 Su di esse si veda A. Seroni, Bacchelli e l'intelligenza dell'Ariosto in «L'approdo letterario», ottobre-dicembre 1958, pp. 41-49, il quale insiste anche sulla coscienza "che l'Ariosto ebbe di una svolta decisiva che si compiva lui vivente, quando il Rinascimento si faceva maturo e la spugna della rivoluzione linguistica bembiana passava sulle precedenti esperienze provinciali (anche nel senso di "dialettali")" (pp. 48-49); almeno per la prima parte l'osservazione deriva dai nostri studi.

24 L. Caretti, Filologia e critica cit., p. 61.

25 Per altre precisazioni sui nostri studi si veda: R. Ramat, La critica cit., p. 218 (sullo storicismo concreto) e A. Testa, La critica letteraria calabrese nel Novecento, Cosenza 1968, pp.154-161.

26 Tra gli studi più solidi ricordiamo quelli di Carlo Dionisotti, di Cesare Segre e, con prospettive diverse da quelle del 1948 e più vicine alla cultura da noi esaminata, il libro di Walter Binni (Torino, Eri, 1968). Di tali studi abbiamo parlato in Ariosto (Padova, 1969).