Gli studi su Sigismondo Pandolfo Malatesti
signore di Rimini
di Massimo Manenti
Letteratura & Società, n.17-18 / 2004
All’Umanesimo ferrarese Antonio Piromalli, è noto, volle dedicare la sua lunga ed operosa vita di studioso, consultando la ricca suppellettile libraria giacente nelle biblioteche felsinee e romagnole, per indagare più attentamente quale côte d’intellettuali operasse nella Ferrara degli Estensi, che così profondamente influì sulle riflessioni storiche e filologiche degli umanisti attivi nelle maggiori corti italiane. Risale agli anni Cinquanta, infatti, il fervore di ricerca su temi, problemi e figure dell’umanesimo ferrarese che confluì nell’ampio studio su La cultura a Ferrara al tempo di Ludovico Ariosto, 1953.
Ferrara, indubbiamente, dette nuovo splendore e prestigio alla tradizione umanistica dell’Italia settentrionale, che risentiva dei nuovi orientamenti politici e culturali, perseguiti dalla Signoria degli Estensi. Piromalli, esperto conoscitore del mondo del Furioso che discendeva direttamente dal più ingenuo epos boiardesco, analizzò i moventi storici che determinarono il passaggio lessicale e gnomico ad un linguaggio epico, non più espressione di un codice cavalleresco, ma di un medium lessicale degli ariosteschi sovrasensi e dei simboli scettici della cavalleria feudale al tramonto. La crisi del mondo cavalleresco feudale, la perdita dei valori legati alla mentalità feudale da cui scaturirà in germe il mondo della borghesia, l’interesse storico per la fortuna e la politica delle Signorie nella tradizione comunale del settentrione d’Italia furono i problemi che interessarono Piromalli, il quale si accinse alla stesura degli studi monografici sulla figura dell’uomo d’arme e venturiero Sigismondo Malatesti, signore di Rimini. Il personaggio storico è visto e studiato servendosi della ricchissima messe degli studi filologici malatestiani disponibile nelle biblioteche forlivesi e romagnole, in particolare dei tomi di Storia Patria Riminese scritti da Carlo Tonini, dal titolo Rimini nella Signoria dei Malatesti (Rimini, Albertini, 1880). Alla storia della signoria malatestiana Piromalli dedicò studi di grande valore scientifico, tra i quali ricordiamo, La poesia isottea nel Quattrocento (in Dal Quattrocento al Novecento 1965), Sigismondo Malatesti e la cultura dell’umanesimo (in Indagini e letture 1970), Gli intellettuali presso la corte malatestiana di Rimini (in Società, cultura e letteratura in Emilia e Romagna 1980).
La figura storica di Sigismondo Malatesti appassionò molto lo studioso, che ha individuato lo stretto legame tra le profonde agitazioni politiche (che intervennero, in alcuni casi, a modificare l’assetto della società italiana quattrocentesca, parcellizzata in numerose realtà comunali, perlomeno fino all’Italia centro-settentrionale) e gli splendidi auspici prerinascimentali della cultura italiana aperta alla nuova concezione dell’uomo che si rendeva protagonista della Storia e della civiltà. Come è noto, nella realtà meridionale il feudalesimo, soprattutto della casa degli Svevi, influì pesantemente sui rapporti sociali, politici ed economici, determinando quasi una stasi di vita istituzionale nella vita sociale della collettività. A Piromalli, che si era abbeverato alla dottrina marxista-gramsciana, apparve evidente il sensibile divario (avvenuto a cavallo tra il Quattro e il Cinquecento), che allargò la cesura tra le principali forme espressive delle arti liberali e gli indirizzi politici egemonici delle illustri famiglie, inducendo, di fatto, Sigismondo a rincrudire i suoi costumi di uomo d’arme che relegava gli otia umanistici all’ufficio puramente esornativo d’ingrandire la fortuna e l’ascesa politica dei Malatesti: «La figura centrale in questo volume [Rimini nella Signoria dei Malatesti di C. Tonini] è, giustamente, quella di Sigismondo, che appare capo di condotte militari e tecnico dell’arte della guerra, coraggioso nei fatti d’arme per ardimento personale».
Giustamente Piromalli, memore di alcuni insegnamenti gramsciani, ha sottolineato, in un corollario a supporto finale del suo saggio sull’umanesimo estense a Ferrara, come la tradizione letteraria italiana nei secoli anteriori all’Unità sia stata una tradizione aulica e cortigiana: «Abbiamo dimostrato che gli intellettuali venivano assorbiti dalla corte e non erano indipendenti da nessun punto di vista, non escluso quello economico per il quale assai più direttamente dipendevano dalla dinastia estense» (1). Vale la pena soffermarsi su questo passo per comprendere come in Italia sia sempre mancata una coesione tra gli umanisti e i problemi politici e sociali che agitavano la vita della collettività. Tutta l’Italia era dilaniata da disordini civili, da lutti e carestie, e nella Signoria di Rimini «l’angustia politica e sociale del territorio malatestiano, le ristrettezze economiche, lo stato continuo di guerra, […] sono gli elementi che non permettono ai Malatesti l’elaborazione di una politica culturale» (2). Piromalli individua nell’evoluzione economica (dal modo di produzione della società feudale a quello delle Signorie e dei Principati) una delle cause dell’isolamento irriducibile degli umanisti, i quali si chiusero nella guicciardiniana specola del particulare, per osservare (chi più indifferente, chi più partecipe) i volubili rivolgimenti dell’assetto politico. Sigismondo Malatesti appare a Piromalli una figura politica di primissimo piano, anche se fu personaggio storico manchevole per limiti di carattere: egli «appare […] coraggioso nei fatti d’arme […] ma non abile politico a causa soprattutto del suo opportunismo oltre che della sfortuna. Maltrattato dal suocero Francesco Sforza […] Sigismondo visse in continue angustie psicologiche che gli furono causa di squilibri politici e di errori».
Incostante, egli dovette fronteggiare gli intrighi politici dei pontefici di Roma, nel tentativo d’imporre la sua egemonia territoriale anche al di fuori dei confini dell’avito casato riminese. Nel quadro di una contrapposizione di interessi particolaristici, Sigismondo Malatesti non riuscì a tenere testa alle mire espansionistiche sforzesche, perché «‘per la fiera sua animositade’ faceva poca stima dei suoi avversari». Per quanto dotato di eccellente virtus militare, la sua parabola fu breve e per di più indebolita da scarsa diplomazia nella condotta politica.
Piromalli si chiede perché un uomo di spada come Sigismondo, che rifuggiva dai costumi cortigianeschi delle lettere, raggiunse un livello di indiscusso prestigio nell’organizzazione culturale, anche nel confronto con le corti delle altre Signorie settentrionali. Al riguardo, lo studioso denuncia la scarsa attenzione delle precedenti indagini critiche alle scelte di trattamento economico e sociale degli umanisti alla corte malatestiana: «Dell’organizzazione complessa della corte di Sigismondo, però, e dei nuovi ceti sociali in essa presenti come funzionari organici, non vi è cenno».
Evidentemente, si trattava di molto di più di un’ostentazione di fasti principeschi, né si può pensare a una forma di mecenatismo affine a quello laurenziano: «Sigismondo […] si creava delicati organi di amministrazione. La cultura si alleava alla politica per creare un particolare concetto di governo». Allo scopo, dunque, di rafforzare la reggenza dello stato, Sigismondo ebbe l’accortezza di circondarsi di uomini abili e di fiducia, deputando alle sue longœ manus delicati uffici di cancelleria diplomatica e di negoziazione delle nuove guarentigie politiche ed amministrative con le altre Signorie. Lo scopo, ovviamente, era quello di conservare e accrescere le avite ricchezze e il prestigio politico ed economico dei Malatesti, e Piromalli mette in evidenza che Sigismondo fu un uomo ambizioso, ma non molto avvantaggiato né dai tempi né dall’incostante fortuna: «Il problema economico rimane fondamentale per Sigismondo il quale non aveva immense risorse e per giunta volle innalzare la rocca e il Tempio nello stesso tempo in cui doveva assoldare le milizie per difendere il suo Stato e mantenere la propria corte».
Invitto d’animo nella sventura e magnanimo nella fausta sorte, crudele e temuto, intrigante e dissoluto, Sigismondo appare a Piromalli un mistero umano da capire e da indagare, con una complessità psicologica e morale, che induce lo studioso a mostrarsi indulgente verso le debolezze umane del principe: «La distruzione dei caratteri romantici della personalità di Sigismondo […] liberando la figura del signore di Rimini dal complesso di rilievi decadenti le fanno assumere [una nuova profondità], pei valori organizzativi in cui il sentimento dell’arte si rafforza in concezioni geniali e in una lotta contro gli eventi dai quali Sigismondo fu tragicamente vinto».
Non è da credersi, tuttavia, che gli umanisti, una volta entrati nella fiducia del signore mecenate, fossero remunerati con lauto guiderdone, come ci si aspetterebbe: e questo ci fa comprendere come Sigismondo fosse oculato amministratore delle proprie fortune e non spendesse troppo in opere erudite d’inchiostro, che tutt’al più servivano ad incensare lo stesso principe (e che, quindi, spesso non avevano grande valore artistico). Tutto ciò, del resto, era comune a molte corti italiane, che stringevano volentieri i cordoni della borsa, quando si trattava di remunerare gli umanisti cortigiani. Lo studioso vuole fare giustizia delle ingenerose calunnie sull’uomo, sfatandone nello stesso tempo l’alone di torbidità nel quale è stato avvolto dagli artisti romantici e da quelli decadenti come D’Annunzio (che annotò la stagione isottea col fascino del barbarico e del sensuale), e, ancora una volta, invoca a sostegno l’autorevole giudizio storico di C. Tonini, per riabilitare la memoria di colui che dal Burckhardt fu giudicato come «l’audace masnadiero e condottiero»: «Il Tonini con buone argomentazioni libera la figura di Sigismondo dai falsi delitti che gli vennero imputati dalla Chiesa e dagli altri nemici, la vede vittima dell’‘appetito’, ‘della perfidia e dell’astuzia’ di emuli fortunati e ricorda che la fortuna ‘getta fiori e brucia incenso a tanti, forse peggiori, perché defunti doviziosi e potenti’».
Per definire poi lo status economico dell’umanista all’interno del modo di produzione borghese, a Rimini, Piromalli scrive che «nella maggior parte dei casi, invece, la girovaga turba degli umanisti non aveva una stabilità economica e solo quelli che raggiungevano le elevate posizioni alla corte potevano mantenere una vita decorosa». Impietosa e puntuale, l’analisi piromalliana scava nelle gravi contraddizioni delle Signorie che prezzolavano capitani d’arme e milizie mercenarie e davano, invece, magri emolumenti ai letterati. Si ricordano Porcellio Pandoni, Seneca da Camerino, Basinio (3) e, soprattutto, Roberto Valturio, del quale si ricostruisce il cursus honorum presso Sigismondo: «Il Valturio aderì al mondo umanistico […] quale autore di un’opera [il De re militari] che nonostante l’apparato di notizie rimane tipica espressione di un umanesimo atecnicistico». Passando poi a lumeggiare la vita di Basinio, Piromalli ne esamina l’Hesperis, un poema celebrativo in tredici volumi che enfatizza la gloria del principe mecenate. Bastano questi pochi cenni a dimostrarci come l’ambiente della corte riminese fosse soffocante e il declino della stella di Sigismondo incombesse, in conseguenza della crisi economica e militare che sconvolse la casa Malatesti: «Le basi storiche di quell’umanesimo riminese che si sviluppa a metà del Quattrocento, quando in tutta Italia la vita sociale si comincia a restringere e la necessità dell’equilibrio fra gli stati frena le forze politiche, mancano di un indirizzo sociale nuovo da parte del principe la cui situazione militare frastagliata e quasi inconcludente è soffocata dalla situazione politica».
Se ne conferma la metodologia marxista dello studioso, che ci vuole dimostrare come le categorie esornative delle manifestazioni artistiche debbano essere giustificate e rafforzate dall’organizzazione politica di una classe dirigente, che decide, seleziona e classifica gli indirizzi culturali per modellare i sudditi e per consolidare il consenso: «gli uomini di cultura […] costituirono dei gruppi organici che si vennero differenziando nei compiti. Legisti e giureconsulti venivano adoperati nei consigli di stato e nelle ambascerie; consiglieri, oratori, cancellieri furono spesso umanisti i quali trovarono un’organizzazione nella quale confluire».
Come si vede, i punti nodali del saggio Sigismondo Malatesti e l’organizzazione della cultura tornano di grande attualità anche oggi, in tempi di stagnante crisi per la cultura italiana: già negli anni Cinquanta, Piromalli aveva dimostrato che letteratura, e buona letteratura, non si dà mai, se non quando questa entra in mistione con i fatti, e che dai fatti deve trarre lezione la coscienza democratica di ogni uomo civile e intelligente. Il saggio ha una perenne giovinezza ed è sostenuto da un diligentissimo spoglio di documenti quali le cronache d’epoca, gli atti rogiti in pubblico, i diari dei figli del secolo, i carteggi dei signori Malatesti e dell’istesso Sigismondo.
Il saggio piromalliano squarcia i velami che sembravano permanere intorno alla contraddittoria e spregiudicata personalità del valoroso uomo d’armi e dell’elargitore di somme per il pubblico evergetismo, a sostegno di opere pubbliche di architettura e di opere letterarie, figurative, plastiche. Appuntando l’attenzione sulla natura del concomitante fenomeno dell’esodo verso le altre corti dell’Italia settentrionale (segnatamente nel Veneto) degli umanisti di stanza nella corte malatestiana, Piromalli così osserva: «Non possiamo dimenticare una preziosa notizia di Angelo Battaglini la quale ci riporta al 1458 per indicarci che non era tutto oro quello che luceva e per farci considerare che in quell’anno le difficoltà militari di Sigismondo per opera del Piccinino e di Federico di Montefeltro si facevano sentire ormai nell’economia interna riflettendosi anche sulla cultura».
Il magistero di umanesimo e il rigore del metodo scientifico marxista hanno permesso a Piromalli di offrire alla cultura italiana insigni contributi, destinati non soltanto ad arricchire le biblioteche nazionali, ma a configurarsi come insegnamenti concreti per le nuove generazioni.
NOTE:
1) Renzo Frattarolo, a proposito del metodo di studio e di analisi del Furioso, pone «l’accento sulla personale visione di Piromalli, sulla impostazione integralmente storicistica»(da Il lavoro di un critico di R. Frattarolo) con cui sono esaminati l’ambiente ferrarese e i contenuti etici e sociali del mondo ariostesco. Cfr. il saggio Sigismondo Malatesti e l’organizzazione della cultura, in «Historica» n. 2-3 4-5, 1953.
2) Cfr. il saggio Sigismondo Malatesti e l’organizzazione della cultura, estratto dalla rivista «Historica» n. 2-3-4-5, 1953.
3) Così Piromalli giudicò il mecenatismo sigismondeo: «Si creava con l’adulazione anche un consenso popolare, un pubblico consenziente ai desideri del signore e gli artisti si preoccupavano di superarsi l’un l’altro negli elogi a Sigismondo, tanto che anche le contese umanistiche si muovono nel giro dell’adulazione. Una di queste si svolse il 27 ottobre 1455 nella Rocca malatestiana, alla presenza di Sigismondo, tra Basinio da una parte e Porcellio Pandoni e Seneca da Camerino dall’altra. L’importanza storica, grammaticale e letteraria di tale contesa è indubbia; Porcellio e Seneca volevano dimostrare che non è necessario lo studio del greco per ben conoscere il latino, Basinio il contrario e adulazioni a Sigismondo e invettive contro gli avversari servirono a ciascuno dei contendenti per meglio sostenere le relative tesi» (da Sigismondo Malatesti e l’organizzazione della cultura - Estratto dalla rivista «Historica» n. 2-3-4-5, 1953).