Antonio Piromalli e l'amicizia come valore etico

 

di Pasquale Tuscano
Letteratura & Società, n.17-18 / 2004

 

Quando, nella mattinata dell’8 giugno scorso, prima l’amico poeta Fortunato Canale, subito dopo Aldo Maria Morace, mi comunicavano, da Reggio Calabria, la triste notizia che, il giorno precedente, Antonio Piromalli era stato stroncato, a Polistena, dove si era recato per una conferenza, da un improvviso malore, quasi incredulo, incapace di accettare l’evento luttuoso così imprevisto, mi tornavano in mente le parole del noto Soliloquio che Benedetto Croce scrisse pochi giorni prima di morire: «La morte sopravverrà a metterci in riposo, a toglierci dalle mani il còmpito a cui attendevamo; ma essa non può fare altro che così interromperci, come noi non possiamo fare altro che lasciarci interrompere, perché in ozio stupido essa non ci può trovare»(1).

Mai la morte avrebbe potuto cogliere «in ozio stupido» un uomo dinamico e fieramente battagliero come Antonio Piromalli.
Ci eravamo sentiti telefonicamente qualche giorno prima. Mi aveva detto che sarebbe dovuto andare a Maropati a presiedere una seduta del comitato scientifico della Fondazione ‘F. Seminara’, una sua creatura per la quale aveva particolare premura, anche per l’affetto che lo legava al cugino scrittore, e che, in quell’occasione, avrebbe presentato il romanzo Il viaggio, edito dall’editore Pellegrini, con una sua densa e acuta introduzione.

L’imprevedibile destino volle che cadesse sul campo. E rimarrà nel mio cuore e nel mio ricordo sempre dinamico e sorridente, così come l’ho conosciuto più di trent’anni or sono e come ci siamo lasciati, in Assisi, l’ultima volta. Ci sentivamo spesso per telefono e ci frequentavamo ogni volta che si presentava l’occasione propizia.
Nominato, nel 1999, su mia proposta come censore per le lettere, dal Direttivo dell’Accademia Properziana del Subasio di Assisi, Accademico corrispondente, era venuto, nel mese di novembre del 2001, ad Assisi, per presentare, su invito dell’Accademia, il volume degli Atti del convegno nazionale su San Francesco e il francescanesimo nella letteratura italiana dal XIII al XV secolo, che avevamo tenuto nel dicembre del 1999. In quel convegno aveva svolto una brillante relazione su Iacopone da Todi. L’aveva intitolata significativamente Antifeudalismo francescano(2). La sua interpretazione fermamente ancorata alla storia del tempo e l’analisi scrupolosamente documentata del “misticismo polemico” di Iacopone, del senso ch’egli avvertiva della “pena della vita” e della “contemplazione della morte”, ebbero l’immediata approvazione anche di studiosi francescani presenti al convegno come Giovanni Pozzi e Stanislao da Campagnola.

Ma non è il critico e lo studioso che devo ricordare in questa sede, bensì l’amore che lo legò alla nostra Calabria e al valore ‘sacrale’ – mi si acconsenta il termine, che lui, forse, non avrebbe gradito – che assegnava all’amicizia.

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L’amore per la Calabria non era un fatto puramente sentimentale, affettivo. Era un fatto culturale. L’aspetto affettivo procedeva in lui di pari passo con l’accertamento, e approfondimento, della storia della cultura e della società. Più indagava in profondità le varie epoche della storia del Sud, con particolare riferimento alla Calabria, attraverso l’esame dei documenti archivistici, o di quelli della pubblicistica e dei testi inediti o rari, quasi sempre negletti o ignorati, più si sentiva autentico figlio del Sud, di quella Calabria che aveva dato all’umanità civile giganti del pensiero come Cassiodoro e Telesio; spiriti illuminati e profeti di una umanità libera e affratellata da un nuovo ordine morale e religioso, come Gioacchino da Fiore e Francesco da Paola; il più generoso e audace filosofo-poeta del Seicento italiano, Tommaso Campanella; Gianvincenzo Gravina che, avvertendo la necessità di un ritorno alle norme classiche fondate sulla ragione cartesiana, preparò l’illuminismo del secondo Settecento.

Tale severità nell’impegno dello studio, il costante richiamo alle fonti, ai testi, ai documenti di prima mano, all’analisi dei rapporti tra strutture sociali, ceti e aggregazioni culturali, lo portavano a non provare indulgenza alcuna per gli improvvisatori, per coloro che ritengono di potersi pavoneggiare coi panni altrui, per tutti i Perelà “uomini di fumo” della cultura. Era, soprattutto, impietoso con gli apologeti della “calabresità” vanesia, prosopopeicamente ostentata, costretta, per povertà di apporto storico, in una asfittica visione localistica.
Egli disegnò per primo da noi, per gli studiosi delle culture regionali, delle etnie e della stessa poesia dialettale, la linea metodologica da seguire(3). Scrisse, nel 1975, nella Prefazione alla Letteratura calabrese: «Questa letteratura calabrese è una storia della cultura e non delle sole forme letterarie; pertanto essa si unisce alla storia delle idee, alla storia civile e politica e dei gruppi intellettuali […]. La storia letteraria ha le sue radici nella realtà popolare della Calabria, nei valori civili e culturali che provengono dal popolo». Ciò per la consapevolezza che «l’intellettuale calabrese ha le sue radici nel mondo contadino oppresso; quando ha coscienza delle proprie origini si adopera per spiegare anche culturalmente i rapporti sociali ed elabora originalmente il proprio pensiero, crea mondi artistici in cui è il riflesso di ribellioni e di aspirazioni umane»(4). Offriva, così, l’esempio di «una storia letteraria che tende a risolversi in storia della cultura e della società calabresi […], una lunga galleria di figure grandi e minori viste nella loro individualità e, insieme, nei loro rapporti con la società meridionale e la cultura nazionale»(5).

 

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La mancanza di Antonio Piromalli nell’attività letteraria calabrese e nazionale peserà a lungo. L’affermazione quasi monotona che nessuno di noi è indispensabile è puramente consolatoria.

Piromalli era il solo che aveva l’autorità di far tacere chiunque, ignorando le ricordate ragioni metodologiche di ricerca e di studio, osasse alzare la voce per gridare alla luna una calabresità tronfia e sbruffona, incapace di proiettarsi al di là del cono d’ombra del campanile. In quel caso, forte di un serrato ragionamento, sapeva essere saggiamente polemico. Difendeva insieme la dignità delle lettere e della nostra Calabria. La sua rubrica Lettere vanitose, che aveva trovato ospitalità, nel lontano 1964, nel settimanale «Il Gazzettino del Jonio», diretto da un intellettuale colto e integerrimo, Titta Foti, era un punto di riferimento imprescindibile per quanti volessero guardare ai fatti culturali con rigoroso senso storico. Cessata la pubblicazione del «Gazzettino del Jonio» con la scomparsa, nel gennaio 1975, di Titta Foti, riprese la rubrica con l’impegno di sempre, ma saltuariamente, in «Comunità Bruzia» del 1986-1989, «Cultura» del 1989, «Calabria-oggi» del 1990, e in «Letteratura & Società», la rivista quadrimestrale da lui fondata e diretta, nel 1999, per conto dell’editore Pellegrini.

Per ribadire più fermamente le istanze storiche ed estetiche del suo metodo critico, precisò inequivocabilmente le ragioni della nascita della rivista: «Questa rivista non è nata solamente per allineare contributi di studiosi valenti nei loro campi ma, soprattutto, per cercare di capire i motivi della crisi della letteratura e della società perché i due termini sono interdipendenti […]. È compito anche di queste pagine, di società e cultura, opporci al contrabbando che smercia poltiglia, il residuo degli intrallazzi tra l’ignoranza politica e quella culturale»(6).

L’attaccamento a tale coraggiosa passione civile lo consigliò di raccogliere in volume le Lettere vanitose apparse nel «Gazzettino del Jonio» tra il novembre 1964 e il gennaio 1975. Il volume vide la luce nel 1985, e ribadì che erano dirette «contro gli idoli che ci soffocano, contro i miti, le generalizzazioni, le storture, qualche volta contro noi stessi, contro le nostre fedi e le nostre speranze»(7).

Era persuaso che l’adulante subordinazione di tanti intellettuali, l’atavico conformismo, il provincialismo, l’imparaticcio scolastico ripetitivo, sarebbero scomparsi soltanto se si riuscisse, con la presenza, in Calabria, dell’Università, a proporre, e far radicare bene, le discipline scientifiche, le sole che avrebbero potuto rinnovare la cultura e, quindi, il costume civile e sociale. Tali discipline avrebbero fatto scomparire «la superficialità culturale e critica che caratterizza oggi la nostra regione e il campanilismo iperbolico perché ci si sarà avvicinati a una misura scientifica e critica di valutazione anche nei confronti di altre culture»(8). Era la linea che Antonino Anile e Corrado Alvaro avevano indicato vanamente negli anni Trenta e Cinquanta del Novecento.

 

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Per l’amicizia ebbe un culto particolare. Con raro acume, seppe sempre sceglierle e coltivarle con contatti periodici personali o epistolari o telefonici, sempre cordialissimi.
Quando l’inesorabile morte lo privava di qualcuno, l’affetto si faceva più struggente e la memoria gli riproponeva i richiami ai momenti più fermi sulla concretezza della vita, sulla saldezza degli ideali, sul valore quasi religioso della stima reciproca. Mi piace ricordare le amicizie, alcune delle quali ci erano comuni, e delle quali discorrevamo nei nostri incontri. Quelle col filosofo Valentino Gerratana, con l’attore Raf Vallone, con Rosario Assunto, con Agostino Buda, con Bruno Maier, con Guido Di Pino; quelle coi miei concittadini Pasquale Mesiano, Nino Malara, Bruno Casile.

Scrisse di Gerratana: «Raramente s’incontrano persone essenziali, antiretoriche, schive perché inabili alle inutilità e alle vanità come fu Valentino Gerratana […]. Per me è stata importantissima l’amicizia personale, otto anni di vita trascorsa con lui nell’Università di Salerno (1976-1984), dove era ordinario di storia della filosofia […]. Dopo otto anni mi trasferii all’Università di Cassino […]. Non ci siamo più incontrati, ma la memoria di lui rimane quella di un sodale nei sentimenti di umanità che egli sempre velava con un delicato pudore»(9).

E di Raf Vallone: «Con Raffaele Vallone ho trascorso il mio primo periodo di vita militare piemontese […]. Tra me e Vallone ci fu vera amicizia. A Tortona, alla libera uscita dall’immensa caserma ‘Passalacqua’ io e Vallone ci incamminavamo per il viale delle acacie, ci sedevamo in un angolo appartato del caffè centrale […] dove una donna bellissima, lattea, dai capelli rossi, ci serviva con affabilità, Vallone mi parlava dei suoi studi, dei suoi poeti del Novecento»(10).

Alla mia grecanica Bova lo legava l’amicizia fraterna con Nino Malara e con Pasquale Mesiano, che ebbe colleghi al Liceo-Ginnasio ‘T. Campanella’ di Reggio Calabria nell’immediato dopoguerra, coi quali condivideva gli ideali filosofici e politici, e col poeta grecanico Bruno Casile. Per questo profondo legame con cittadini tanto illustri, l’Associazione Culturale ‘Bovesi nel mondo’ aveva deliberato di assegnargli il premio di ‘Cittadino benemerito’ per il 2003. La manifestazione si doveva tenere la prima domenica di agosto 2003. Quando partecipai tale decisione, mi espresse la sua gioia perché tale riconoscimento gli offriva l’occasione felice per ricordare, nella loro città, gl’indimenticabili amici e compagni di studi e di lotte civili e sociali.

A Nino Malara aveva dedicato, nel 1996, un contributo vibrante di caldi sensi di affetto fraterno e ricco di notizie per chi volesse ricostruire fedelmente la storia della cultura della Calabria del dopoguerra(11). Richiamo qualche passaggio significativo: «Nino Malara era nato a Bova, città grecanica, di quella riviera jonica che aveva dato i più bei nomi all’anarchismo in Calabria (tra i quali Bruno Misefari, Misiano) e all’antifascismo. Aveva studiato all’Università Cattolica e aveva avuto compagno di studi Luigi Gui, ma era venuto fuori comunista compiuto con ampia conoscenza della teoria della lotta di classe, della vita politica del Partito, della funzione degli intellettuali, del valore della storia e dell’economia. Io guardavo ammirato questo proletario affascinante, animoso, razionale, equilibrato, colto e informato, leale e sincero, il quale aveva studiato i classici greci e latini non per aoristeggiare e grammaticizzare, ma interpretando il rapporto tra società e cultura in Grecia e a Roma, la lotta di classe nell’antichità, il classicismo antitirannico e antidispotico, il tirannicidio, il suicidio eroico per non diventare servo, le imprese di Armodio e di Aristogitone, di Bruto e di Cassio. Era il primo esemplare di classicista illuminista che vedevo in opera»(12). Ricordava, ancora, che fu «tra i fondatori del sindacato dei professori che i vecchi docenti vedevano come il fumo negli occhi perché trattava di problemi dell’immenso stuolo dei precari e dei supplenti, della società e della cultura e minacciava privilegi e abusi consolidati»(13). Chiariva puntualmente le doti di Nino Malara meridionalista, bovese, e i vari aspetti della sua personalità «che si fondevano in modo armonioso in uno stampo etico progressista che è raro trovare in altre regioni d’Italia», rammaricandosi che «per eccessiva modestia, non ha lasciato alla scrittura le proprie idee vigorose»(14).

Di Bruno Casile ammirava il candore, la saggezza, l’amore per la vita e per le cose belle, e il forte legame alle memorie ancestrali, a quel grecanico che gli evocava tempi e affetti, gli anziani, i nonni coi quali era cresciuto, un modo di essere nel mondo che non si rassegnava a vederlo tramontare e che s’illudeva cocciutamente di poter far rivivere. Battaglia donchisciottesca, ma ammirevole e non vana se servì a riprendere, in qualche misura, la ‘questione’ da un punto di vista storico e linguistico con dibattiti e convegni sulle tesi classiche di Gerard Rohlfs e di Oronzo Parlangèli con la partecipazione di studiosi di riconosciuto valore.

Piromalli coglieva bene il valore e il senso della poesia immediata, elementare, di Bruno Casile. I suoi versi sono legati «alla cultura dell’etnìa e li estrae da quel mondo naturalistico le cui particelle egli respira […]. Poesia delle radici e radici di etnìa nella poesia e non possiamo non ricordare che l’afflato poetico domina le pagine di Casile fino ai memorabili versi conclusivi, alti, umani, fraterni: ‘Stanca la mia vita, / ma non sazia / del mondo che lascia’»(15).

 

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Agostino Buda era un comune amico, generoso di affetto, leale, schietto, ospitale, viaggiatore instancabile, di straordinaria esperienza umana e sociale, anche per essere stato in contatto, prima e durante la seconda guerra mondiale, con alcuni protagonisti di quegli eventi. Quando, alla morte di Agostino, pensò di scrivere un saggio per ricordarlo, mi chiese una specie di promemoria del mio lungo sodalizio con lui. Glielo inviai subito, corredandolo della fotocopia delle sue lettere più significative che conservo gelosamente. Quando lessi il saggio, apparso nel fascicolo di dicembre 2002 di «Letteratura & Società»(16), gli espressi il mio compiacimento per il “profilo” rigoroso e appassionato che gli aveva dedicato.

Fu felice del mio consenso. Me lo confermava in una lettera con la quale mi inviava un suo scritto in memoria di Anna Maria Bianchi(17), sua affettuosa compagna di lavoro e sua estimatrice, scomparsa il 19 agosto 2002. Li avevo avuti ospiti, in Assisi, nel dicembre 1999, nell’occasione del convegno nazionale su San Francesco e il francescanesimo nella letteratura italiana dei secoli XIII-XV. Era un conversatore inesauribile, di un fascino singolare e di una eccezionale memoria. In quella serata conviviale, a casa mia, tali sue qualità furono particolarmente brillanti. Rievocammo stagioni e protagonisti che ci furono cari e indimenticabili. Con giovanile entusiasmo, esplose in una serie di ricordi, di aneddoti, di eventi, qualche volta malinconici per colpa della nostra “ingenuità”, dei quali, se c’era da rattristarsi, non c’era certo da pentirsi. Fu una gioia per tutti, specialmente per i miei figli che apprendevano, per la prima volta, da una autorevole voce non familiare, quindi disinteressata, notizie memorabili sulla civiltà della nostra Bova e, in qualche misura, anche sullo stato della cultura calabrese e nazionale.

 

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Mi piace chiudere queste pagine di memorie della mia amicizia con Antonio Piromalli, ricordando il poeta, non meno autentico e profondo dello storico della letteratura e dell’appassionato polemista. A proposito della sua raccolta di versi Sei tu il bolero(18), scrivevo:
Come un rabdomante, egli vuol cogliere il senso e gli umori della storia attraverso il filtro dell’amore fatto, di volta in volta, tenerezza e passione, tormento e illusione, senso di colpa e disincanto, felicità immensa e acerbo rimpianto […]. Ribelle ai moduli metrici della tradizione […] al punto da assumere come propri, e con indiscussa originalità, quelli più innovatori della poesia novecentesca, dai simbolisti agli ermetici, dal futurismo alle neoavanguardie, Piromalli, come visione della vita e degli eventi, con rigorosa coerenza ai suoi ideali di progresso e di giustizia sociale, rientra perfettamente nell’ordine della cognizione esistenziale dell’uomo di ogni tempo e di ogni paese (19).

In un appunto zibaldoniano del 17 settembre 1821, Leopardi avverte: «È vero che la virtù, come predica Cicerone, De amicitia, è il fondamento dell’amicizia, né può essere amicizia senza virtù, perché la virtù non è altro che il contrario dell’egoismo, principale ostacolo all’amicizia»(20), e sappiamo che per lui la virtù «non è altro che l’applicazione e ordinazione dell’amor proprio al bene altrui»(21).
Ebbene, Antonio Piromalli di tale “virtù” fu dotato in sommo grado. Visse, perciò, circondato da uno stuolo di amici affettuosi e leali, dei quali andava fiero, che, ora che non c’è più, s’impegnano a portare avanti la sua lezione di coerenza e di rettitudine, conservando sempre viva la memoria del suo sorriso e della sua umanità.

NOTE:

1) In F. Nicolini, Benedetto Croce, Torino, UTET, 1962, p. 437.

2) A. Piromalli, Antifeudalismo francescano, in AA.VV., San Francesco e il francescanesimo nella letteratura italiana dal XIII alXV secolo. Atti del convegno nazionale (Assisi, 10-12 dicembre 1999), a cura di Stanislao da Campagnola e Pasquale Tuscano, Assisi, Acc. Properziana del Subasio, 2001, pp. 75-92.

3) Cfr. almeno: A. Piromalli, Inchiesta attuale sulle minoranze etniche e linguistiche in Calabria, Cosenza, Brenner, 1981; Letteratura e cultura popolare, Firenze, Olschki, 1983; Letteratura dialettale e letteratura nazionale, in AA.VV., Letteratura dialettale in Italia dall’unità ad oggi. Atti del convegno di Palermo (1-4 dicembre 1980), a cura di Pietro Mazzamuto, Palermo, S.G.A., 1984, vol. I, pp. 85-100.

4) A. Piromalli, La letteratura calabrese, Napoli, Guida editori, II ed., 1977, pp. 5, 6 e 7. (I ed., Cosenza, Pellegrini, 1965).

5) T. Scappaticci, L’attività critica di Antonio Piromalli, in AA.VV., Studi in onore di Antonio Piromalli, a cura di T. Iermano, Napoli, ESI, 1993, vol. I, pp. 30-31.

6) A. Piromalli, Lettere vanitose, in «Letteratura & Società», a. II, n. 2, 2000, pp. 86-87.

7) A. Piromalli, Lettere vanitose, Rubbettino, Soveria Mannelli 1985, p. 40.

8Ibidem, p. 248.

9) A. Piromalli, Lettere vanitose, in «Letteratura & Società», a. III, n. 1, 2001, pp. 84-86.

10) A. Piromalli, Lettere vanitose, in ‘Letteratura & Società’, a. V, n. 1, 2003, pp. 99 e 101-102.

11) A. Piromalli, Ricordo di Nino Malara. La continua affermazione della lotta in funzione dell’uomo, in «Il Corriere Calabrese», a. VI, n. 1, 1996, pp. 53-55.

12) Ibidem, p. 53.

13) Ibidem, p. 54.

14) Ibidem, p. 55.

15) A. Piromalli, Poesia delle radici, in B. Casile, Strafonghia sto scoditi (Barlume nel buio). Testi grecanici e italiani, Vibo Valentia, Quale Cultura - Jaca Book, 1991, pp. 163-166. Le citazioni si riferiscono alla p. 165. Su Bruno Casile poeta, cfr. anche: F. Nocera, Bruno Casile poeta-contadino. L’ambiente, la lingua, la poetica, in «Letteratura & Società», a. V, n. 1, 2003, pp. 68-75.

16) A. Piromalli, Umanitarismo e antifascismo di Agostino Buda, in «Letteratura & Società», a. IV, n. 3, 2002, pp. 36-55.

17) A. Piromalli, Ricordo di Anna Maria Bianchi, in «Confronto», a. XXVIII, n. 8, 2002, p. 3.

18) A. Piromalli, Sei tu il bolero, Forlì, Forum - Quinta Generazione, 1991, pp. 155.

19) P. Tuscano, Tenerezza e disillusione in Antonio Piromalli poeta, in Per altezza d’ingegno. Aspetti e figure dell’attività letteraria calabrese tra Otto e Novecento, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002, pp. 231 e 236.

20) G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura di F. Flora, Milano, Mondatori, VI ed., 1961, vol. I, p. 1113.

21) Ibidem, p. 596.

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