L'area padana nelle ricerche di Antonio Piromalli
( di Franco Mollia, Studi in onore di Antonio Piromalli, p. 67-73, ESI, Napoli 1993)

 

Andate a Ferrara con Antonio Piromalli: egli vi guiderà sicuro e infaticabile per ogni strada, indicandovi luoghi, angoli e case, di cui vi saprà ricostruire storie lontane e recenti (dal palazzo di Marfisa al giardino dei Finzi Contini), senza alcuna affettazione erudita o la civetteria di evocazioni archeologiche, ma con la partecipazione del conoscitore intelligente, non senza una dose di arguto distacco: da un tale itinerario ricaverete la prova di un lavoro inconfondibile: poiché sembra che spesso siano i luoghi a suscitare gli interessi culturali del critico, più che scelte intellettualistiche o calcoli accademici. Vivendo in un dato ambiente, Piromalli ne assorbe intensamente la vicenda quotidiana, ne assimila l'atmosfera, ne scopre a poco a poco le tradizioni e, se l'attenzione coglie motivi validi per la ricerca, egli vi affonda l'occhio indagatore, individua gli strumenti più idonei al compimento dell'opera, che sarà sempre un'indagine puntuale, curiosa di ogni riflesso che indichi la genesi dei fenomeni studiati nel loro sviluppo storico. (continua dalla pagina "La critica letteraria").

Così è stato appunto per la cultura estense di Ferrara, come per la Trieste di Michelstaedter, per la Torino e il Canavese di Cozzano, per la Sicilia di Pirandello e di Tomasi di Lampedusa, per la Sardegna di Deledda, per la Ca­labria di Gioacchino da Fiore e soprattutto di Seminara, o per la Romagna di Sigismondo Malatesta, di Pascoli, di Bertola.

Infatti gli interessi critici di Antonio Piromalli si muovono in diversi settori della storia letteraria italiana: uomini e tendenze, epoche, ambienti e opere sono stati esplorati con fine intuito critico, ma soprattutto con la volontà di precisare situazioni e matrici culturali in cui uomini e opere si sono realizzati nella storia. Questo a noi pare il risultato esemplare dell'indagine critica di Piromalli: la concretezza storica assunta come modulo costante delle sue ricerche, la riduzione di ogni fenomeno artistico alla sua motivazione sociologica, nel senso più ampio del termine: per cui non si assiste mai alla contemplazione insignificante del frammento lirico o della pagina bella, ma si viene sollecitati a meditare sul rapporto dialettico esistente fra lo scrittore e il suo mondo, l'uno e l'altro studiati sempre nella loro reciprocità effettuale, nella loro reversibilità di valori e intrinseca corrispondenza.

Non ci troviamo perciò mai di fronte a medaglioni campiti nell'assolutezza metafisica di individualità che, per essere universali, diventano storicamente inesistenti, o di fronte al culto di un'arte considerata 'autonoma' e quindi purificata da ogni contatto avvilente con la realtà e la contingenza, che pure nutre ogni vera opera d'arte e in essa si manifesta nella sua totalità, anche se velata da ambagi e metafore. Se dovessimo richiamare modelli della nostra tradizione critica e su di essi verificare la validità del metodo di Piromalli, parleremmo di De Sanctis, Salvemini, Gramsci: modelli, come si vede, che non consentono distrazioni o evasioni o mistificazioni dei fatti artistici e letterari.

Per esemplificare quanto abbiamo premesso, basterà aprire alcuni dei saggi che Piromalli ha dedicato agli avvenimenti culturali che interessano l'area padana, da Ferrara a Rimini, e cioè il saggio dedicato ad Alfredo Panzini (Costume e arte di A. Panzini, “Trimestre”, Pescara, II, 3-4 [1968], III, 1 [1969]), quelli fondamentali dedicati all’Ariosto (La cultura a Ferrara al tempo di L. Ariosto, Firenze, 1953; Motivi e forme della poesia di L. Ariosto, Messina-Firenze, 1954; Ariosto, Collana 'La nuova critica', Padova, 1969), e quello dedicato al Pascoli (La poesia di Giovanni Pascoli, Pisa, 1957).

Nel Panzini Piromalli coglie la matrice carducciana intrisa di scetticismo, e di accarezzamenti evasivi di sogni tardo romantici, e tuttavia permeata di sdegni moralistici contro i piccoli uomini e le loro piccole cose nell'Italia dell'ultimo Ottocento (mentre il Carducci tuonava appunto contro «i vigliacchi d'Italia»): eppure il critico mette in rilievo nella cultura panziniana quanto di opaco risulta dalla sua coscienza di uomo, come la mitizzazione della storia, l'irrisione della filosofia e dei filosofi moderni per quanto esprimono di nuovo e di conturbante nella civiltà tesa al futuro (risulta tanto più convincente il richiamo alla drammatica consapevolezza di Pirandello e Michelstaedter). È notevole il fatto che Piromalli sappia cogliere l'influsso esercitato dal calabrese Francesco Acri sul Panzini e quindi il conflitto storicamente irrisolto della cultura panziniana, tesa fra la nostalgia del passato di Grecia e di Roma e le esigenze del mondo moderno; perciò diventa comprensibile la sfiducia del Panzini conservatore e reazionario che si risolve in quel 'corrodente divertimento' (gli illusi-delusi Gozzano e Palazzeschi insegnano!), che non cerca la salvezza perché non si pone il problema. Lo stesso Panzini che accoglie favorevolmente il fascismo è visto da Piromalli nella giusta dimensione del vecchio letterato italiano, incapace di verificare nella storia degli uomini il valore e la validità della cultura, per cui diventa oltremodo persuasiva la conclusione del critico che definisce il Panzini scrittore assai lontano dal mondo e dalle forme del Novecento.

Nell’esaminare l'opera di Ludovico Ariosto, Piromalli tiene presente la situazione della critica e soprattutto immette il poeta nell'ambiente culturale della Ferrara rinascimentale: da una parte quindi abbiamo una risentita rassegna dei contributi più significativi alla comprensione dell’Ariosto, dai lontani contemporanei fino ai critici delle più recenti tendenze. Il mondo della realtà e del meraviglioso costituiscono fin dalle origini i due moduli interpretativi di un poema che l'Ariosto stesso dichiarava colmo di « cose piacevoli et delectabili », ma che la critica ha sempre visto come la summa della ideologia rinascimentale, permeata di idealità e di verità effettuali, di fantasie evasive e di crudezze sanguigne, di curiosità sperimentali e di astrazioni concettuali: il poema piacque infatti a Machiavelli ed a Galilei, che seppero leggere nella trama delle avventure, delle audaci imprese, delle peregrinazioni labirintiche di donne e cavalieri antiqui i significati profondi di saggezza e follia umane. Così da Hegel a De Sanctis, a Croce, a Momigliano, a Binni fino alle più attuali tendenze della critica postidealistica Piromalli ricava precise indicazioni valutative che ci aiutano a riconsiderare l'Ariosto nel groviglio delle affermazioni che l'hanno posto nel limbo del «nobile sognare» o nell'olimpo del puro amore per l'armonia cosmica o, d'altro canto, nella concreta e individuata posizione di simbolo dello spirito moderno e di precursore della scienza.

Ma il risultato più consistente raggiunto dalla ricerca di Piromalli è stato quello di rivedere i documenti della civiltà ferrarese quattro-cinquecentesca e di porli in una prospettiva storica che andasse oltre la catalogazione erudita, o la superata scoperta delle fonti, di tipo positivistico: uno studio invece di carattere storico-sociale, che indicasse, «contro la superstizione letteraria dell'armonia delle classi e della cultura creata dalla borghesia che aveva dato un carattere idealistico al concetto di umanesimo nell'esaltazione feticistica della forma, i contrasti e i dissidi che esistevano nella Ferrara estense». Innanzitutto un lavoro paziente negli archivi e nei fondi della biblioteca: un lavoro che fruttava la restituzione, oltre che dei versi giocosi di Antonio Cammelli, detto il Pistoia, soprattutto di preziosi documenti della letteratura popolare, quella dei «bischizi», con un conseguente allargamento dell'area letteraria al di fuori anche della concezione positivistica, la quale aveva individuato nella corte ferrarese un luogo di idillica beatitudine, di otium senza conflitti, al di fuori di ogni realtà. Si ha in tal modo un quadro avvincente degli interessi, degli odi e malversazioni delle grandi famiglie dominanti a Ferrara ai tempi dell'Ariosto, che Piromalli scopre rileggendo antichi testi sepolti nella polvere, come il Diario ferrarese, di anonimo, le Cronache di Bernardino Zambotti e di Ugo Caleffini: si vengono così a conoscere, nel rozzo linguaggio dei cronisti, le prepotenze e i soprusi degli Estensi e delle famiglie dell'aristocrazia e della borghesia ferrarese, e soprattutto il carattere politico del mecenatismo estense, politico in senso classista, come classista era l'amministrazione della giustizia. E’ indubbio che da un tale quadro d'insieme, assai articolato, risulta più incisiva e per molti aspetti più comprensibile la componente 'segreta' dell'ispirazione ariostesca oltre che l'atteggiamento del poeta nei confronti dei suoi mecenati e in genere della civiltà cavalieresca a cui essi intendevano ufficialmente richiamarsi come ad un emblema di superiore equilibrio, capace di placare o mascherare i contrasti della realtà.

Basterà un ultimo breve cenno ad un altro lavoro critico che Piromalli ha condotto nei confronti del Pascoli: innanzitutto va detto che in ogni momento della ricerca è presente, e risalta viva e indimenticabile, la personalità del poeta di S. Mauro: non c'è da una parte l'analisi della poesia, come materiale asettico e ultramondano, e dall'altra qualche cenno di cronaca alla vita dell'uomo: ma ogni tratto della poesia è scavato dal fondo della coscienza del poeta, sconvolto dalla tragedia dei suoi morti familiari, impegnato con velleità socialistico-umanitarie nel giudicare le vicende politiche dell'Italia umbertino-giolittiana, o immerso con anima sognante e insieme con acume filologico alla riscoperta del mondo classico: è un volume, quello dedicato al Pascoli, che si consiglia di leggere e di tenere come guida per la comprensione del poeta romagnolo: innanzitutto per la puntualità dei riferimenti e per la ricchezza della documentazione, e inoltre per l'intelligenza profonda con cui si studiano le connotazioni ritmiche e le cadenze tipiche, le suggestioni simbolistiche, i cromatismi affascinanti e la forza inconfondibile delle evocazioni nei 'frammenti' (per esempio nelle prime Myricae). Recentemente Piromalli ha detto: «A noi non piace Pascoli»: è uno di quei paradossi di cui spesso il nostro critico si compiace per stordire e disorientare, con simpatica aggressività, l'interlocutore: è vero il contrario, perché Pascoli fa parte di quella Romagna da cui è germinato l'interesse critico e la partecipazione 'umana' di Piromalli alla prima matrice della grande poesia pascoliana: e se diciamo Romagna non alludiamo ad una astrazione libresca, ma alle spiagge assolate, ai calanchi, ora verdi ora corrosi, all'incendio dei tramonti che incombono sulle fertili campagne e sulla gente che sembra fatta della stessa pasta generosa della terra, e alle vicende di ogni paese, ai testi inverosimili, per l'Italia ancora bigotta, che campeggiano provocatori dalle lapidi murate alle pareti di case e municipi di ogni borgo, lapidi inneggianti a Garibaldi e Mazzini e tuonanti enfaticamente contro le 'bieche' filosofie pretesche e reazionarie: un Pascoli che emerga da tale ambiente risulta sconcertante per la sua personalità umbratile ma nello stesso tempo rimane fisso nella memoria per quanto di eccezionale ha saputo creare nella sua poesia, fatta di impegno e di evasione, di sofferenze e di flebile rinuncia.

Ci sembra che l'opera critica di Piromalli abbia aggiunto un materiale prezioso per la conoscenza della civiltà padana (non si deve dimenticare l'indagine sulla civiltà riminese sotto il dominio 'illuminato' di Sigismondo Malatesta), e ci trasmetta una lezione di metodo e di stile che non si può trascurare.