Tra impegno e storicismo: il metodo critico di Antonio Piromalli
(di Tommaso Scappaticci, Letteratura & Società, nº 17-18, 2004, p. 30)

 

L’attività critica di Antonio Piromalli si colloca in un arco di tempo che, dagli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale, ha registrato il susseguirsi di una grande varietà di indirizzi culturali, di scuole di pensiero, di metodi ermeneutici spesso caratterizzati da una forte volontà polemica nei confronti dei sostenitori di altri criteri di indagine. Ma se il rapido variare di interessi e orientamenti ha attirato la sua curiosità di studioso attento alla modernità e pronto a confrontarsi con le nuove istanze metodologiche, il suo itinerario appare, d’altra parte, caratterizzato dalla fedeltà a un criterio di lettura che, più che modificarsi, con il tempo ha acquistato in sicurezza di impostazione e ampliato l’orizzonte dei suoi interessi. (continua dalla pagina: "La critica letteraria")

Non uno studioso sollecito a seguire l’indirizzo più recente, per dimostrare di sapersi adattare ai nuovi orientamenti del dibattito culturale, nella continua revisione di una scrittura critica protesa a uniformarsi alla moda del momento. Piromalli ha elaborato un criterio di indagine che, pur in un costante rapporto dialettico con il modificarsi della situazione storico-letteraria, si è mantenuto sostanzialmente coerente all’impegno storicista e militante maturato a seguito di esperienze non solo culturali.

La sua prima formazione si svolge in un periodo caratterizzato dalla prevalenza del sistema idealistico, e al crocianesimo Piromalli aderisce con studi (Antonio Fogazzaro 1939, Vincenzo Gerace e la tradizione 1939, La poesia di Sergio Corazzini 1940) attenti a cogliere le componenti estetiche dell’identità intuizione-espressione e a cercare negli autori la capacità di una trasfigurazione del dato reale per mezzo della liricità. Ma mostra anche una precoce avversione per il formalismo e apprezza le inedite Baracche di Seminara e il romanzo Caterina Marasca di Giovanna Gulli, che lo interessano per la carica realistica e per la tendenza ad accordare i modi della trascrizione letteraria a concrete vicende di vita e di realtà storica. La sua è un’esperienza analoga a quella di tanti altri critici (da Petronio a Trombatore, da Sapegno a Salinari), che sono passati attraverso il crocianesimo e ne hanno assorbito la carica innovativa, ma si sono discostati dalle interpretazioni estremistiche dei crociani ortodossi che, considerando «l’umanità come ibrida intrusione nell’opera di elementi impuri», favorivano «un’arte disancorata dalla realtà e vivente per astratte forme, ridotta al culto del frammento, del verso, della parola». In Piromalli la lezione di Croce si congiunge presto a quella di De Sanctis e di Luigi Russo, di cui riprende il senso storico e l’attenzione ai problemi di poetica, che lo mettono al riparo dal rischio di risolvere il concetto di autonomia dell’arte in una sostanziale frattura fra l’artista e l’uomo.

La revisione del metodo idealistico culmina nell’esperienza della seconda guerra mondiale e dei profondi mutamenti anche culturali ad essa connessi, quando si avverte l’esigenza di un antifascismo più pratico e militante di quello crociano e si colgono i limiti di un criterio tendente a isolare la poesia dalla storia. L’uomo di cultura sente allora il dovere di fare i conti con la realtà e di riesaminare l’idea di poesia fino ad allora accettata, al fine di una profonda revisione del modo di porsi di fronte alle proprie responsabilità e alle esigenze della società. Piromalli approda, così, a una posizione di storicismo integrale, che restituisce il prodotto artistico al mondo dell’esperienza pratica e al disimpegno formalista oppone una cultura disposta a impegnarsi nei problemi della realtà storica e della vita quotidiana. È uno storicismo pervaso di impegno etico e civile, che si nutre della lettura delle opere di Gramsci e dei teorici della critica marxista e cerca di saldarne la lezione con la tradizione del pensiero democratico e, in primo luogo, con De Sanctis.

Le sue indagini letterarie muovono, adesso, dalla convinzione di una correlazione dialettica tra arte e vita e dalla necessità di esaminare le opere nelle loro diverse dimensioni (storica, ideologica, artistica), vedendole anche come espressione di esigenze e aspirazioni di determinati strati sociali. Perciò i suoi studi si fondano su attente ricostruzioni delle condizioni storico-sociali, necessarie per capire il significato anche politico di operazioni culturali che, a differenza di quanto sosteneva l’estetica crociana, non si esaurivano nel mondo empireo della poesia universale ed eterna, ma costituivano anch’esse momenti essenziali della dinamica storica. È quanto viene attuato per la prima volta nel volume su La cultura a Ferrara al tempo di Ludovico Ariosto (1953), dove Piromalli evidenzia le basi classiste della politica sociale e culturale degli Estensi, fondandosi su una accurata ricostruzione storico-documentaria per dissolvere il mito rinascimentale dell’armonia della vita ferrarese delineato da Burckhardt e confermato dalla critica positivistica e idealistica.

Partendo dall’analisi di diari e cronache del tempo, si colgono le contraddizioni di una società in cui, sotto la cornice di lusso ed eleganza, esisteva una diffusa condizione di miseria e di disagio popolare, determinata proprio dalla politica di magnificenza e di espansione territoriale del ducato. Il mecenatismo della corte favoriva un umanesimo limitato al solo aspetto estetico e impegnato a colorire la tirannide di raffinatezze classiche e cavalleresche, servendosi dell’arte come strumento di propaganda di una concezione di classe che vuole dare al popolo l’illusione di una partecipazione al grande rito ludico delle feste e della cultura signorili, come contrappeso allo stato di ingiustizia e alle caratteristiche feudali del governo. Ben diversi erano, invece, i toni di una letteratura popolare e antiestense che, nelle proteste anonime dei bischizi e nei versi del Pistoia, denunciava il fiscalismo e la crudeltà dei funzionari ducali e portava alla luce le difficili condizioni di vita dei ceti inferiori. E si rigetta la collocazione del Pistoia nell’ambito del genere letterario giocoso, per vederlo nella dimensione di poeta anticortigiano che deriva la sua arte non dal gusto gratuito dello scherzo ma da una seria esperienza umana e dal contatto con le più avanzate linee della razionalità rinascimentale.

Lo studio sulla cultura estense suscitò vaste reazioni nel mondo delle lettere, e non pochi furono i dissensi da parte di quanti, ancora legati a un criterio di lettura attento ai puri valori dell’arte, rimasero sconcertati di fronte a un metodo che, gramscianamente, stabiliva una connessione tra fenomeni culturali e strutture socio-economiche. L’arte, per Piromalli, non va vista astrattamente, nella sua edenica purezza, ma riportata in un preciso contesto ambientale e temporale, che consenta di coglierne le radici e i condizionamenti. Il suo è uno storicismo consapevole della complessità e specificità del fatto letterario e, quindi, attento a istituire, tra arte e ideologia, tra opere e ambiente, nessi dialettici dinamici e complessi, evitando così di incorrere nei rischi del sociologismo volgare e nella semplicistica riduzione dell’arte a rispecchiamento delle condizioni ambientali.

Meno innovativi appaiono gli studi immediatamente successivi (Motivi e forme della poesia di Ludovico Ariosto 1954, La poesia di Giovanni Pascoli 1957), che rivelano il perdurante aggancio al criterio crociano di lettura, ma anche il deciso orientarsi verso forme artistiche attente al reale e, comunque, collegate a specifiche situazioni storico-culturali. Nel primo si sottolinea la rilevanza del naturalismo quale componente essenziale della base conoscitiva e intellettuale dell’Orlando furioso, e alla tesi tradizionale dell’indifferenza ariostesca si contrappongono il vivo interesse per i problemi umani e l’osservazione attenta dei molteplici aspetti della realtà. Il secondo rigetta l’ipotesi di una giovinezza poetica pascoliana unicamente attratta dal modello di Carducci e, fondandosi sull’analisi delle Varie, sottolinea il graduale affermarsi di un’esigenza realistica che, da un lato, corrisponde al movimento complessivo della cultura italiana tesa a rompere l’accademismo della tradizione aulica e, dall’altro, risente dei contatti con gli ambienti della Romagna e della Toscana, dove le idee internazionaliste e le esperienze macchiaiole orientavano verso un rapporto più diretto con la realtà. Secondo il critico, Pascoli trova l’equilibrio artistico nel contatto con la vita quotidiana e nella percezione immediata della natura e delle piccole cose, ritratte con una intimità di espressione e un calore di sentimento che si vanno offuscando nelle edizioni successive delle Myricae per il prevalere del senso del mistero e dell’identificazione dell’arte con il simbolo.

Alla caratterizzazione di ambienti culturali, fondata su accurate ricerche di archivio, si torna con il volume dedicato ad Aurelio Bertola nella letteratura del Settecento (1959). Partendo dall’esame di copiosi carteggi conservati in varie biblioteche, si ricostruiscono il clima spirituale e gli interessi letterari di ambienti tardo-settecenteschi ancora legati ai modi arcadici, ma anche disponibili a recepire motivi della nuova sensibilità illuministica e preromantica europea. Più che dalla analisi delle opere, la figura di Bertola balza fuori dalla fitta corrispondenza con amiche e scrittori e dalla frequentazione con la società colta e mondana del tempo: un mondo di salotti, ville, circoli, accademie, di cui si colgono i limiti di leziosità e povertà poetica, ma anche la vivacità degli interessi, il decoro formale perseguito nel costume e nello stile, il «gusto fatto di estro, di pathos e di grazia che giungendo ad esprimersi liricamente diventa una nota musicale e circolante della vita». È un vasto e variegato affresco di un’epoca letteraria, che sarà ampliato e approfondito in altri studi sulla civiltà settecentesca, ricostruita nei momenti più significativi della sua evoluzione.

Studi che, nel complesso, sottolineano l’importanza centrale e la forza innovativa del moto illuministico con il suo richiamo al senso del reale e a una cultura calata nella vita, ma che non escludono l’attenzione ad altri aspetti, forse meno congeniali al gusto del critico, ma sempre studiati con un impegno conoscitivo alieno da pregiudizi. Si hanno, così, la storia della critica sull’Arcadia (1963), i saggi su Carlo Innocenzo Frugoni (1969) e Isabella Teotochi Albrizzi (1967), la monografia su Lorenzo Mascheroni (1965), le edizioni del Saul (1968) e della Locandiera (1960), a delineare il quadro di un’epoca di cui viene colta soprattutto la dialettica tradizione-innovazione. È su questo problema che si incentra anche lo studio sulla poesia pariniana (Giuseppe Parini 1966), di cui si sottolinea l’accordo tra tradizione classica e cultura illuministica e si individua il momento centrale nell’incontro con il sensismo. Rifiutando sia l’immagine romantica di un Parini vivo per la sua umanità e dignità morale, sia l’interpretazione di Petrini sulla poesia identificantesi solo nella passione per l’eleganza e per il piacere, Piromalli coglie il nucleo dell’arte pariniana nella sintesi di sentimento del bello ed esigenza morale, pur ammettendo diverse possibilità di combinazioni ed esiti artistici.

La convinzione che all’arte occorre assegnare un valore non solo lirico, ma anche logico e intellettuale, orienta Piromalli verso una critica attenta alla ricostruzione della poetica degli autori, della loro ideologia, dei rapporti con il potere e con il pubblico. Nei suoi saggi la storia delle nostre lettere viene ricostruita da un punto di vista democratico e progressista, evidenziando nei fatti della vita e della letteratura il senso di giustizia, la tensione alla verità, la serietà, il rigore morale. La figura che appare più lontana dal gusto del critico è quella dell’intellettuale che si isola nel mondo delle lettere, indifferente all’esigenza di cogliere il legame esistente tra arte e società e di perseguire un programma neoilluministico di cultura impegnata nella conoscenza e trasformazione della realtà.

La connessione tra impegno letterario e impegno civile costituisce il dato più rilevante della personalità di Piromalli. Perciò al critico letterario egli attribuisce una funzione ben diversa da quella di valutare l’opera sulla base del puro godimento estetico che da essa si ricava: l’attività critica è da lui intesa come un’operazione non sganciata dai problemi della vita quotidiana e asetticamente chiusa nell’ambito delle ricerche specialistiche, ma volta anche, attraverso lo specifico dell’indagine letteraria, a impegnarsi nella realtà della storia e della società, per sollecitare reazioni morali, civili, politiche, che vadano al di là dell’interesse puramente estetico. Una passione etico-civile che si coglie tra le righe in tutti i suoi studi, ma trova l’espressione più piena nelle Lettere vanitose, la rubrica iniziata nel 1964 e, sia pure con interruzioni, continuata fino alla morte. Sono articoli corrosivi e taglienti anche sul piano espressivo, che denunciano impietosamente i mali della repubblica delle lettere e, in genere, della società, attaccando sia i politici incapaci di assolvere i loro doveri che i letterati restii a prendere posizione sui problemi concreti, per scarsa conoscenza della realtà o per la pretesa di non dovere contaminare la purezza dell’arte. A volte si ha l’impressione di una certa unilateralità di giudizi troppo rigidi o sommari, ma non c’è mai moralismo astratto o uggioso: c’è la serietà morale e la concretezza costruttiva di chi assume per intero le proprie responsabilità e si riconosce nel programma di impegno civile proposto dalla tradizione della critica desanctisiana e marxista.

Su questa linea si avviano, negli anni sessanta, due direttive di indagine destinate a porsi tra i tratti più qualificanti dell’attività critica di Piromalli: l’analisi del ruolo svolto dagli intellettuali nella storia e nella società e l’attenzione alle culture regionali. Al problema gramsciano degli intellettuali il critico si era avvicinato fin dal volume sulla cultura estense, ma adesso la sua attenzione si volge soprattutto alla crisi storico-culturale di fine ’800-inizio ’900, un’epoca contrassegnata dall’affermarsi della civiltà industriale in Italia, ma anche dal venir meno delle certezze positivistiche e della fiducia borghese nel controllo incontrastato della società. Se la dialettica tradizione-innovazione era stata la linea conduttrice delle indagini sulla cultura del ’700, a sollecitare ora l’interesse del critico è l’individuazione delle proposte di soluzione alla crisi avanzate da scrittori che oscillano fra una lucida e drammatica coscienza razionale e il vagheggiamento di miti capaci di esorcizzare il disorientamento spirituale dell’epoca. In questa prospettiva si collocano le monografie su Michelstaedter, Deledda, Fogazzaro, Gozzano, ma vi rientrano anche quasi tutti gli studi compresi nei Saggi critici di storia letteraria (1967) e negli Studi sul Novecento (1969), oltre a non pochi di quelli inseriti nelle due miscellanee successive, Indagini e letture (1970) e Disegni storici e aggiornamenti critici (1971). Da De Sanctis a Carducci e Corazzini, da Pirandello a Panzini e agli scrittori della prima guerra mondiale, è un susseguirsi di ritratti in cui, accanto alla dimensione più propriamente letteraria, lo storicismo di Piromalli coglie le linee essenziali dell’evoluzione complessiva della società e della cultura.

Nell’analisi della crisi di fine secolo un ruolo di estrema coerenza e consapevolezza è attribuito a Carlo Michelstaedter, la cui monografia (1968) delinea la figura vigorosa e tragica di un intellettuale che avverte lucidamente la precarietà della condizione umana e le mistificazioni operate dalla strutturazione borghese della società e da una cultura volta a proporre illusori modelli di edonismo e di facile ottimismo. Nello scrittore goriziano si realizza la coincidenza di vita e di pensiero che, prima di portarlo al suicidio inteso come atto di estrema coerenza con le sue idee, lo impegna nella denuncia della “rettorica”, e cioè di quanto, nella società e nella cultura, è accettazione passiva delle convenzioni, sottomissione al sapere e al potere costituiti, illusione volontaria, dogmatismo. Di Michel-staedter si sottolinea il legame con l’ambiente giuliano e con il pensiero mitteleuropeo, ma anche l’isolamento nella cultura italiana del tempo, di cui l’autore rigetta sia le soluzioni decadenti e l’ottimismo scientifico dei positivisti sia lo storicismo crociano, mentre la sua originale sete di assoluto e il suo eroico volontarismo lo differenziano anche da quegli scrittori triestini della «Voce» con i quali pure ha in comune tanti caratteri.

A una esperienza provinciale e autobiografica è collegata, invece, l’arte della Deledda (Grazia Deledda 1968), il cui nucleo centrale è colto nell’intuizione di una vita arcaica e patriarcale, dominata da un fatalismo quasi biblico, che trascina gli uomini come corrente rapinosa e comporta l’inevitabilità della pena, accettata dai personaggi con la coscienza di dover espiare la colpa commessa. È una concezione fondata su una visione intuitiva e religiosa della vita, povera di basi scientifiche e sostanzialmente estranea alle principali correnti letterarie del tempo. Né il verismo né il decadentismo esercitarono profonda influenza sulla narrativa della Deledda, di cui si segue lo svolgimento dai primi romanzi, incentrati sulla problematica morale e sull’arcaico mondo sardo, all’ultima stagione, contrassegnata dalla tendenza a un accentuato psicologismo e da una sostanziale involuzione artistica.

Collocata sullo sfondo dell’età che vide l’affermarsi della rivoluzione industriale, del colonialismo, dello stile liberty, l’attività letteraria di Gozzano (Ideologia e arte in Guido Gozzano 1973) è seguita nelle varie sperimentazioni e nel suo progressivo affrancarsi dalle rarefazioni estetizzanti, culminante nella conquista di una forma nuova che si realizza particolarmente nei Colloqui e ha nell’ironia e nel parlato gli elementi connotativi della dimensione novecentesca di uno scrittore per altri aspetti ancora collegato a motivi tradizionali. Nel suo giudizio riduttivo dell’ideologia gozzaniana, Piromalli vede il vittimismo come frutto di una incapacità di lottare che porta a ripudiare il presente fatto di tecnicismo e industrializzazione e a cercare rifugi nella fuga nel tempo e nello spazio, nel rifiuto della vita, nella convinzione che il letterato possa realizzarsi nel mondo appartato dell’arte. È un “intellettuale tradizionale”, privo di rapporto con la struttura economico-sociale, che elabora motivi omogenei alla cultura borghese. E il suo antinaturalismo si manifesta nella forma più piena nei plagi delle Farfalle e Verso la cuna del mondo, che non obbediscono tanto all’intento di instaurare una sorta di gara di emulazione con le fonti, quanto alla linea estetico-ideologica di una svalutazione del reale, alla tendenza a guardare la vita attraverso il filtro della letteratura.

Quanto a Fogazzaro, l’autore forse più studiato da Piromalli, la monografia del ’73 (Miti e arte in Antonio Fogazzaro) parte dal presupposto anticrociano che l’ideologia è «parte integrante dell’opera fogazzariana ed in essa hanno radici le qualità psicologiche ed artistiche dello scrittore». L’autore vicentino è visto come espressione della crisi della borghesia dell’ultimo ’800, nei confronti della quale vuole condurre una polemica fondata sul disgusto per la mediocrità della vita contemporanea e sull’aspirazione a un rinnovamento morale e ideale. Ma, secondo il critico, si tratta di un tentativo destinato al fallimento perché ancorato a posizioni moderate e conservatrici, che si appellavano a uno spiritualismo equivoco e non tenevano conto del processo storico caratterizzato dallo sviluppo del capitalismo industriale, dal positivismo, dalla prassi politica della stessa Chiesa, ormai alleatasi alle «nuove forme di potere: banche, capitali, mezzi di diffusione». La posizione antirealistica e “fuori tempo” porta Fogazzaro alla convinzione che l’arte deve ascendere dalla materia all’ideale e rappresentare «i tipi superiori in formazione», e nella sua opera non si riscontra evoluzione artistica o ideologica, in quanto «venne ripetendo la sua aspirazione a conciliare, salvandolo, l’elemento vecchio con quei presentimenti di novità che egli poteva avvertire».

A questo filone incentrato sul ruolo degli intellettuali di fine ’800 si affianca, come si è detto, l’attenzione alle culture regionali, che risente della lezione di Carlo Dionisotti e si fonda sulla convinzione del policentrismo della nostra letteratura. Da Piromalli le culture regionali non sono considerate sinonimo di inferiorità e limitatezza di orizzonti, ma espressione autentica e variegata di specificità che, senza isolarsi, si distinguono dalla cultura nazionale. Studiarle significa assicurare una base storicamente più concreta al lavoro critico, ma significa anche recuperare e valorizzare il patrimonio culturale e artistico di regioni che, soprattutto nel Mezzogiorno, costituivano ancora un territorio quasi inesplorato. E non è certo un caso se, pur non escludendo corpose sortite in altre aree culturali della penisola (la Sicilia di Nino Pino e Turi Vasile, la Basilicata di Pierro ecc.), la sua attenzione si è indirizzata soprattutto alle due regioni che, oltre a essere legate alle sue esperienze di vita, hanno maggiormente influito sulla maturazione dei suoi interessi umani e culturali.

Da un lato la sua terra d’origine, la Calabria, fatta oggetto di una lunga e quasi ininterrotta serie di saggi che ne hanno ricostruito aspetti, caratteri, problemi, sottraendo all’oblio figure anche marginali della letteratura passata e recente. Saggi sempre proiettati nel quadro di una stretta connessione tra impegno civile e impegno letterario, per cui lo studio della cultura calabrese è costantemente correlato all’esigenza di cogliere e denunciare i mali antichi e attuali della regione, con un impegno conoscitivo che tiene al riparo da vagheggiamenti nostalgici e da sopravvalutazioni ispirate a un malinteso amore municipalistico della patria regionale. Contrario a ogni forma di astratta idealizzazione, Piromalli rigetta pseudoconcetti estetizzanti come quelli della “calabresità” e “romagnolità”, cui contrappone l’esigenza, nella vita civile come nell’attività critica, di guardare alla concretezza dei problemi, alle condizioni di vita del popolo, al legame cultura-società. E le sue stesse stroncature, sempre molto esplicite e decise, sembrano diventare ancora più dure nel caso di scrittori calabresi, quasi voglia richiamarli alla loro responsabilità di testimoni e interpreti di una condizione di degrado che richiede impegno e rigore in ogni campo, non escluso quello degli studi critici e della produzione artistica.

A singoli autori e tendenze della cultura calabrese Piromalli ha dedicato monografie e saggi, come, per fare solo qualche nome, quelli su Marianna Procopio (1963), Lorenzo Calogero (1968), Alba Florio (1969). In Gioacchino da Fiore e Dante (1966) riprende il motivo delle istanze palingenetiche proprie della spiritualità calabrese, analizzando la figura di Gioacchino nei suoi legami con la realtà storica e la varia tradizione religiosa (cristiana, latina, pitagorica, greco-basiliana) e nell’influenza esercitata dalle sue dottrine sul pensiero religioso di Dante; di Vincenzo Padula cura le edizioni delle Cronache del brigantaggio (1974) e delle Poesie inedite (1974), sottolineando la coesistenza di tradizione aulica e tendenza realistica in uno scrittore che al gusto dell’esercitazione letteraria affiancò l’attenzione a forme espressive popolari e ai problemi della sua regione; in Fortunato Seminara (1966) si coglie il rapporto con la tradizione verista e con la problematica dostojewskiana del bene e del male, ma la sua arte è collegata soprattutto alla realtà socio-economica del “paese del Sud”, visto in una dimensione concreta, non letteraria («Seminara è uno dei pochissimi scrittori italiani che conoscano veramente la vita dei contadini essendo vissuto quasi sempre in un paese di miseri braccianti»), e descritto con un realismo denso di passione civile e di seria e dolorante moralità. Accanto ai tanti profili inseriti in Società e cultura in Calabria tra Otto e Novecento (1979), merita di essere almeno ricordata anche l’Inchiesta attuale sulle minoranze etniche e linguistiche in Calabria (1981), un volume miscellaneo in cui si affronta il problema della sopravvivenza culturale delle comunità minoritarie calabresi, prive di tutela giuridica e sottoposte all’aggressione massificante della società moderna.

Il testo più significativo di questo versante “regionale” della critica di Piromalli rimane, comunque, La letteratura calabrese (1965, ma rivista e riproposta più volte), la prima storia organica delle forme letterarie elaborate nella regione dai tempi di Cassiodoro fino ai nostri giorni. È una storia della letteratura, ma tende a risolversi in storia della cultura e della società calabresi, in quanto l’indagine si allarga a comprendere settori diversi (dalla scienza alla filosofia) e la fisionomia degli autori è sempre delineata all’interno di un inquadramento storico e socio-economico che ne sottolinea la connessione con movimenti religiosi, culturali, politici, con situazioni e problemi storicamente individuati. Una grande sintesi, condotta con lucido senso delle proporzioni e subito diventata un obbligato punto di riferimento e strumento indispensabile di consultazione e di ricerca per quanti si occupavano della Calabria non solo dal punto di vista artistico. La tradizione culturale della regione è ricostruita nel suo svolgimento e nei rapporti con la letteratura nazionale, e a questo lavoro di sistemazione storica complessiva sono seguite analisi più minuziose su singoli autori e problemi specifici, volte a colmare le inevitabili lacune e a integrare quanto La letteratura calabrese aveva pionieristicamente tratteggiato.

L’altra regione sulla cui cultura l’attenzione del critico si è soffermata con particolare insistenza è quella che, per venticinque anni, è stata la sua terra di adozione, l’Emilia-Romagna. Una regione dai caratteri storico-culturali profondamente diversi da quelli riscontrati in Calabria e a cui (oltre i volumi sulla cultura estense, su Ariosto e Bertola) rimandano gli studi dedicati a Carlo Innocenzo Frugoni, alla corte malatestiana, a Illuminata Bembo, fino ad arrivare agli autori degli ultimi due secoli e alla Storia della cultura a Rimini nell’Ottocento (1981): studi in cui, pur senza perdere di vista la specificità dell’ambiente regionale, si evita la chiusura in una dimensione localistica e si dilatano le prospettive di indagine, nell’individuazione del fitto intreccio di rapporti esistenti tra zone periferiche e cultura nazionale.

L’attenzione alle culture regionali rimane una costante dell’impegno critico di Piromalli, come dimostrano i saggi inseriti in alcuni dei suoi ultimi volumi (Utopia e realtà nelle letterature regionali 1991, Pagine siciliane 1992). Ma, a partire dalla seconda metà degli anni settanta, questo indirizzo di studi assume una nuova direttiva, in cui la costante attenzione al problema del rapporto tra cultura e società si affianca alla polemica contro la critica accademica, volta a privilegiare le forme di letteratura “alta”, e all’esigenza di dare una risposta alle nuove prospettive aperte dalla civiltà di massa. Di fronte al processo di omogeneizzazione dei gusti collettivi imposto dal consumismo del “villaggio globale”, che mira ad annullare la specificità di ambienti e culture e a sottoporre la produzione letteraria alle leggi del mercato e al potere economico, l’interesse del critico si è rivolto allo studio di due settori della produzione artistica, uniti dalla comune matrice popolare e dalla condanna tradizionale a una condizione di subalternità: la narrativa di consumo e la letteratura dialettale.

Nel primo caso Piromalli si è affiancato a Petronio nel recupero critico di quel genere “triviale” a lungo ignorato dalla storiografia ufficiale. Oggi questo settore degli studi letterari ha registrato uno straordinario sviluppo e annovera una ricchissima bibliografia di saggi teorici e di indagini specifiche, attirando la curiosità del mondo accademico e della critica militante per la sua stretta connessione con la società di massa. Ma allora la cosiddetta “paraletteratura” era soggetta all’ostracismo di chi, distinguendola nettamente dalla “vera” letteratura, la riteneva indegna di seria attenzione critica e adatta solo a palati grossolani, ed erano pochi gli studiosi anticonformisti che ne rivendicavano la funzionalità sociale e la dignità artistica. Fra questi, appunto, si inserisce Piromalli, con i suoi studi su Salgari, su Garibaldi e, soprattutto, con il volume su Guido Da Verona (1976). L’autore di Sandokan è inquadrato nell’età dell’imperialismo e del colonialismo e i meccanismi narrativi dei suoi romanzi sono messi in relazione con un pubblico di massa al quale viene proposta un’«epica popolare anticoloniale», fondata sul senso dell’eroico e dell’avventuroso come alternativa alla povertà fantastica e alla mancanza di virtù civili della crisi postrisorgimentale. Le opere letterarie di Garibaldi sono funzionali all’intento di divulgazione popolare degli ideali di eroismo libertario e di progresso sociale e offrono modelli positivi di vita in cui il popolo possa identificarsi, «facendo in essi confluire le speranze frustrate, il riscatto dall’emarginazione».

Ma è l’originale monografia su Guido Da Verona a configurarsi come uno dei documenti più significativi e metodologicamente rigorosi del revival della narrativa di consumo. Caso letterario e insieme fenomeno di costume, Da Verona è visto sullo sfondo della belle époque, di cui riprende i miti e i motivi culturali più diffusi, soprattutto dannunziani, per adeguarli ai gusti della piccola borghesia del tempo. La riduzione del superuomo a gaudente viveur, l’atmosfera densa di estetismo esotico e di eccezionalità passionale, la liricità melodrammatica dei temi della fatalità e della perdizione, la vita come avventura vissuta all’insegna dell’eccentricità e della trasgressione si accordano con una concezione politica fondata sul nazionalismo e sulla polemica antisocialista, nella progettazione di prodotti letterari appetibili per un pubblico che sogna «una vita superiore, aristocratica, avventurosa, nuova, in cui ciascuno poteva essere un eroe che esorcizzava i limiti imposti dalla razionalizzazione coercitiva dell’esistenza». Piromalli sottolinea il kitsch dominante nell’ostentazione di vitalismo e negli stessi atteggiamenti anticonformistici di rifiuto della letteratura e della morale, come ne coglie il legame con fatti di costume quali il divismo cinematografico, l’esotismo delle canzoni di tabarin, danze trasgressive come il tango. Fino all’emarginazione dello scrittore, colpevole, fra l’altro, di quel rimaneggiamento parodistico dei Promessi sposi di cui si propone una duplice chiave di lettura: da un lato la dissacrazione irridente e volutamente profanatoria della visione religiosa e letteraria del romanzo manzoniano, dall’altro la satira degli «elementi di struttura, di costume e di stile del fascismo».

Quanto alla letteratura dialettale e popolare, diventata negli ultimi decenni uno dei campi privilegiati delle indagini di Piromalli, è vista come riflesso di bisogni e aspirazioni dei ceti inferiori, in cui il dialetto diventa strumento di conoscenza della vita del popolo ed espressione di una concezione spesso alternativa a quella ufficiale. Una cultura che dalla critica è stata in genere idealizzata o espunta perché troppo realistica e non trasfigurata in arte, mentre occorre individuarne i connotati specifici e assegnarle un posto adeguato in una storia della letteratura che non voglia limitarsi alle sole manifestazioni artistiche elaborate dai ceti dominanti. Sono scrittori (esaminati, tra l’altro, in Letteratura e cultura popolare 1983 e in Letteratura illuministica e altri studi 1996) che, di fronte alla cultura popolare, non si pongono con l’atteggiamento di superiorità di chi appartiene a un mondo diverso e ne utilizza motivi e moduli espressivi solo con intenti di raffinato sperimentalismo o per insaporire le proprie pagine con tratti “pittoreschi” ed “esotici”. Gli autori popolari, al contrario, si collocano all’interno del mondo subalterno, interpretandone le esigenze e usando il dialetto come forma di adesione alla realtà, e Piromalli li studia in una prospettiva interdisciplinare, che utilizza i contributi del folklore, della sociologia, dell’antropologia culturale, in quanto funzionali a evidenziare la correlazione dialettica tra forme di vita e forme di cultura.

Ne sono derivate inattese “scoperte” e stimolanti interpretazioni, che mirano ad allargare il concetto di letteratura ed evidenziano la rilevanza storico-documentaria e la validità artistica di prodotti finora ritenuti indegni di essere accolti nella repubblica delle lettere. Accanto ad autori progressisti, interpreti dei valori della giustizia e della ragione, vi sono altri che si fanno portavoce di idee reazionarie e indirizzano i loro scritti allo scopo di creare consenso alle direttive socio-politiche dei ceti dominanti. Di Vincenzo Ammirà si studiano i componimenti erotici (La Ceceide 1975, Ngagghia e Riviglieide 1979), sempre condannati come osceni e ora rivalutati nei loro intenti di demistificare i presupposti etico-culturali della tradizione aulica e affermare il valore umano e naturale dell’amore, concepito come forza vitale e adeguato al codice sessuale delle classi subalterne. Le poesie dialettali del ciabattino-cantastorie Giustiniano Villa (Zirudèli 1979) sono viste in relazione all’ansia di giustizia e alla protesta antipadronale del mondo rurale romagnolo di fine ’800, mentre il Ceccone del contadino sammarinese Pietro Rossi (1983) propone un’ideologia papalina e antiliberale di opposizione al moto risorgimentale e all’unificazione nazionale.

Oppure si coglie la presenza di motivi popolari in autori coltissimi, come nello studio su Albino Pierro (1979). Punto di partenza del lavoro è la ricostruzione della storia e della geografia di Tursi, il paese lucano isolato e arcaico, visto come fonte psicologica e culturale delle strutture interiori dell’arte pierriana. L’autenticità di questo mondo protostorico preserva l’autore dalla cultura idealistica dell’età del fascismo e si contrappone alla solitudine dell’intellettuale e al consumismo edonistico moderno, offrendo al poeta impegnato nello scavo della propria crisi esistenziale la possibilità di ritrovare un’aggregazione umana in una realtà ricca di ricordi del passato e di elementi culturali subalterni. La poetica di Pierro è studiata nella sua genesi ed evoluzione, nei suoi caratteri di vaghezza ideativa e di gestualità teatrale, e l’approdo al dialetto è visto come una necessità imposta dalla ricerca di autenticità, un mezzo per realizzare l’immedesimazione con il mondo segreto dell’infanzia e con le radici del paese, innalzato a emblema della nostra epoca.

Ed esponenti della cultura popolare e della narrativa di consumo hanno trovato posto nella Storia della letteratura italiana (1987), nella consapevolezza che una storia letteraria che aspiri a essere «veramente integrale» deve prendere in considerazione tutte le forme dell’attività letteraria e non limitarsi a quelle canoniche ed elitarie. È un manuale che, nella prospettiva di una ricerca storico-materialistica dei modi di produzione letteraria, nasce dal continuo contatto con il mondo della scuola e utilizza le risultanze delle tante indagini specifiche condotte in decenni di fervido lavoro. La letteratura vi è intesa come attività umana, come realtà storica e sociale, i cui protagonisti sono portatori di specifiche istanze conoscitive, che hanno tradotto in arte una visione storicamente organica della realtà. Perciò, oltre che sui connotati individuali delle singole opere, si insiste sulla funzione sociale della letteratura, sui rapporti degli autori con il pubblico e sulle tecniche di trasmissione delle ideologie, mentre si dà ampio spazio all’interdisciplinarità e alle culture subalterne.

La connessione tra letteratura e società costituisce il cardine di un metodo di indagine che, per quanto sempre disposto a confrontarsi con altri criteri di lettura, non ha mai concepito il lavoro del critico come un rinchiudersi nell’hortus conclusus della letteratura e un distaccarsi dai problemi della vita e della storia. E questa connessione è, per così dire, sanzionata dal titolo che Piromalli ha voluto assegnare alla rivista da lui fondata nel 1999, concepita con connotati che la differenziano dal modello canonico del periodico erudito e accademico. Con «Letteratura & Società» si è mirato a realizzare una divulgazione di qualità, creando uno strumento capace di affiancare lo spessore culturale e la ricchezza dei contenuti a una agevole accessibilità, che non fosse compromessa da tecnicismi e complicati linguaggi iniziatici. Una rivista agile e, insieme, stimolante, consapevole di quello che è il compito essenziale della critica, cioè di fare da intermediario fra cultura e lettori, e scritta da specialisti che si mettono al servizio non solo della comunità scientifica, ma anche di un pubblico largo e desideroso di ampliare le proprie conoscenze.